di Giacomo Pautasso e Riccardo Orioles

Luca Parnasi, classe 1977, è l’uomo dello Stadio della Roma, che dovrebbe (doveva?) sorgere nell’area di Tor di Valle, a sud della Capitale. Di questo progetto si parla, in forme diverse, dal 2011, quando la società di calcio Roma passa – auspice Unicredit – dalle mani della famiglia Sensi a quelle di una cordata di imprenditori americani che nominano Di Benedetto presidente (negli anni successivi prenderà le redini della società Pallotta, uno dei partecipanti alla cordata).

La nuova proprietà dichiara subito di voler costruire un nuovo stadio. Nelle prime settimane, sulla stampa e sui forum dei tifosi, c’è qualche incertezza su dove potrà sorgere ma nel settembre del 2011, dopo un primo incontro col sindaco Alemanno, il neo presidente della Roma si reca, per un sopralluogo, a Tor di Valle. Da quel momento diviene chiaro che il nuovo stadio della Roma sorgerà lì, e diviene chiaro che a realizzare il progetto sarà Parnasi, che ha la disponibilità di quell’area e un primo progetto di massima.
L’iter, negli anni successivi, sarà molto travagliato. Si raggiunge una bozza di progetto definitivo all’epoca dell’amministrazione Marino, poi il progetto viene radicalmente modificato dalla giunta Raggi, fino alle inchieste di queste giorni e al punto interrogativo riguardante il futuro. Ma l’elemento chiave è che sin dai primi passi dei nuovi proprietari, il loro nome si lega a quello di Parnasi e al progetto Tor di Valle.

Luca Parnasi all’epoca era un imprenditore trentenne, erede di uno dei più grossi costruttori romani: Sandro Parnasi, uomo schivo, poche interviste e niente mondanità, scomparso a 86 anni nel 2016; aveva iniziato – si racconta – dopo la guerra come stagnaro, poi era entrato in edilizia e lì, a poco a poco, aveva costruito un impero. Sinistreggiante, dicono, come i colleghi Marchini. Il suo nome compare sulla stampa vero la metà degli anni 70, in occasione della ristrutturazione di Sogene. Era, questa, la società che sino a qualche anno prima era conosciuta come Immobiliare, una gigantesca società di costruzione, tra le principali autrici del boom (e del disastro) edilizio romano del dopoguerra. Caduta in crisi, lo Ior (la Banca del Vaticano) la vende a Sindona sulla fine degli anni 60. Il banchiere mafioso non la risolleva, anzi contribuisce ad affossarla ancor più e quando Sindona cade in disgrazia (e in fallimento) la Sogene (intanto l’Immobiliare vaticana aveva cambiato nome) torna alla Banca di Roma, creditrice di Sindona.

A quel punto – siamo nel 1974 – la Banca di Roma riunisce un gruppo di immobiliaristi (“palazzinaro” è una brutta parola) romani e chiede loro di acquistare la Sogene orfana di Sindona. In questo gruppetto compaiono nomi famosi alle cronache dell’epoca (Genghini, Belli, Marchini) insieme ad altri decisamente di secondo piano. Tra questi Sandro Parnasi.
La Sogene, diretta collegialmente, non va meglio di come andasse prima. Dura un decennio sino a quando, alla fine degli anni 80, viene messa in liquidazione. La procedura è piuttosto lunga ma nel 1991 spunta un acquirente per la parte più pregiata, la Sogene Casa, proprietaria di immobili e terreni, il nucleo dell’impero immobiliare di Sindona. Se l’aggiudica Sandro Parnasi versando, secondo le cronache, 205 miliardi di lire praticamente in contanti. E’ ormai uno dei padroni di Roma, ma mantiene sempre un basso profilo. Non compare quasi mai sui giornali, lasciando ad altri interviste e copertine.

Passa una decina di anni e, nel 2003, arriva il secondo salto di qualità: Sandro Parnasi rileva il patrimonio immobiliare di Graci e Finocchiaro, due dei famosi quattro “cavalieri dell’Apocalisse” catanese degli anni 80. Non è un acquisto diretto, tiene a precisare in una rarissima intervista (Corriere della Sera, 1 maggio 2013). «Su questa vicenda – dice – sono state dette diverse cose inesatte e diffamatorie: non è piacevole per uno come me, dopo decenni di lavoro senza mai avere avuto un qualunque contestazione o problema giudiziario – al contrario di altri – sentirsi definire in malo modo». Non ha trattato direttamente, ribadisce, coi cavalieri. «Non abbiamo comperato i terreni dai “cavalieri catanesi”, che non so neanche chi siano, ma dalla Sicilcassa in liquidazione sotto la vigilanza della Banca d’Italia, che a sua volta li aveva rilevati non dai “cavalieri catanesi”, ma dalle procedure di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi il cui amministratore è di nomina governativa. E il prezzo di acquisto era congruo e molto superiore rispetto a quanto riportato».

Non sapremo mai se effettivamente non avesse mai sentito parlare dei quattro dell’Apocalisse o girasse attorno all’argomento. Ma è un fatto che, direttamente o meno, nel 2003 lo stagnaro degli anni 50 è diventato il padrone degli imperi mafiosi di Sindona e dei cavalieri.
Negli anni quegli immobili e terreni vengono messi a frutto. Parnasi ha un buon rapporto con le giunte che via via si sono succedute a Roma e, realizza un’iniziativa dietro l’altra. La più appariscente sorge sui terreni di Graci, non lontani dall’area di Tor di Valle. Si tratta di un enorme centro commerciale (Euroma 2) e di due imponenti grattacieli, uno dei quali venduto in extremis alla Provincia di Roma poco prima che questa, presieduta da Nicola Zingaretti, scomparisse dal novero delle istituzioni per essere sostituita dalla Città Metropolitana.

Questa è l’eredità di Luca Parnasi quando, nel 2011, accompagna il neopresidente della Roma Di Benedetto a compiere il sopralluogo a Tor di Valle.
Ma le cose non vanno troppo bene. La crisi edilizia colpisce anche i Parnasi che, indebitati fortemente con le banche, in primis con Unicredit, cedono le proprietà ancora in mano a Parsitalia (la società della famiglia Parnasi) in cambio di una riduzione dei debiti. Passano di mano, e Unicredit li colloca in una sua controllata, progetti e beni in gran parte a Roma, ma anche a Catania (Corso Martiri della Libertà – San Berillio). A questo punto Luca Parnasi è, probabilmente suo malgrado, costretto a occuparsi dell’ultimo grande progetto ancora rimasto in mano sua, quello dello Stadio quando, nel 2016, viene eletta sindaca Virginia Raggi.

La precedente giunta Marino, dopo interminabili studi, era arrivata a definire un progetto di massima che prevedeva per il privato (Parnasi) la possibilità di edificare ampie cubature, in cambio di opere pubbliche a vantaggio della città. I 5stelle erano, in campagna elettorale, molto contrari all’iniziativa (bollata, al solito, come colata di cemento) e, una volta in Campidoglio si trovano a dover decidere cosa fare. Viene adottata una soluzione di compromesso al ribasso. Vengono ridotte le cubature del privato il quale, in cambio, non sarà tenuto a costruire le opere pubbliche necessarie, in primis collegamenti stradali e ferroviari per permettere alle decine di migliaia di spettatori delle partite di defluire senza caos. Il risultato finale è del tutto insoddisfacente per la città, e nella società di Parnasi ne sono perfettamente a conoscenza, ma il progetto alla fine trova l’approvazione.

Ma a questo risultato si è giunti grazie all’intervento risolutivo di un certo avvocato Lanzalone, nome del tutto sconosciuto, sino a poche settimane prima, a Roma e ai romani. Si tratta di un professionista genovese, vicino ai 5stelle, che ha collaborato con la giunta livornese e, novello Mr Wolf, viene mandato a Roma per risolvere problemi. Primo quello dello Stadio: come riuscire a far approvare un progetto dopo che per mesi si era sostenuto il no senza se e ma?

Dalle intercettazioni risulta che tra i due, Parnasi e Lanzalone, si stabilisce immediatamente un’intesa. Parnasi ammette che era in difficoltà e isolato, perché assessore all’Urbanistica era Paolo Berdini, fiero oppositore del progetto. A quel punto arriva da Genova Lanzalone e subito le cose prendono un’altra piega. Berdini, poi, a causa di improvvide dichiarazioni captate da La Stampa, nelle quali definiva la Raggi un’incapace e faceva battute sui di lei morosi, offre su un piatto d’argento le motivazioni per la propria estromissione.
Lanzalone e Parnasi marciano spediti e, alla fine, il progetto viene realizzato, con grandi annunci a relativi hashtag, in particolare #unostadiofattobene. Mai hashtag portò più scalogna.
Lanzalone, grazie ai suoi buoni servigi, viene premiato con la presidenza di Acea, la società romana di elettricità e acqua, e comincia a prendere in mano le redini delle situazioni più spinose. Coltiva, però, l’amicizia con Parnasi e quando si arriva alle elezioni del 4 marzo tra i due l’intesa è cementata.
Anzi, tra i tre.

Entra infatti in scena Luigi Bisignani, piduista, faccendiere coinvolto in mille vicende; la voce che ama su di sé far circolare è “l’uomo più potente d’Italia”; esperto di cariche pubbliche, amicizie ovunque, di qua dal Tevere e anche oltre. Non sappiamo quando Bisignani e i Parnasi entrano in contatto, ma dev’essere stato tanto tempo fa, perché Luca Parnasi confessa che Bisignani l’ha preso in braccio quand’è nato e che lui, Luca, ha nei suoi confronti un rapporto quasi filiale. Dal che si potrebbe dedurre che i Parnasi conoscono Bisignani dagli anni 70 (Luca è del ’77) proprio gli anni nei quali il quarantenne Sandro comincia ad espandere la sua attività entrando nella cordata che rileva l’impero dei Sindona e poi, anni dopo, a rilevarla del tutto.

Luca Parnasi dei suoi consigli si fida moltissimo, ha una particolare considerazione per Bisignani; parlando con un altro imputato: “Tu troverai una persona – dice – che è un giornalista di altissima qualità, con cui tu devi avere rapporti, perché se vuoi mediare posizioni importanti…”. Bisignani non è proprio incline ai 5stelle; forse per lui l’ideale sarebbe un bel governo Renzi-Berlusconi, coi soliti centristi per tutte le stagioni. I risultati del 4 marzo, però, vanno in tutt’altra direzione e, da uomo navigato qual è, non perde tempo. Il rapporto stretto ormai instaurato tra Lanzalone e Parnasi torna utile alla bisogna. Lanzalone ha un problema di poco conto, è uscito un pettegolezzo che lo riguarda su Dagospia e vorrebbe che il sito lo cancellasse. Detto fatto, Bisignani si attiva.

In un pranzo a tre, Parnasi, Bisignani e Salini (altro costruttore), Luca Parnasi confida a Salini che oramai coi 5stelle i rapporti sono ottimi. “Se ti fa piacere organizzerei una colazione… C’è una persona che devi conoscere. Siamo diventati amici. L’avvocato Lanzalone, che ho conosciuto in una riunione…”. Il 9 marzo, a urne appena chiuse, Lanzalone e Parnasi si incontrano a pranzo, parlano del futuro governo, ancora ufficialmente nelle mani di Dio. Lanzalone fa il nome di qualche possibile ministro pentastellato (previsione fondata); e si organizza una cena per il 12 marzo, una settimana dopo il voto. Parteciperà a questa cena (i cui contenuti sono al momento coperti da omissis) Giancarlo Giorgetti, attuale sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, l’uomo messo da Salvini a palazzo Chigi per controllare tutto ciò che avviene da quella parti. Giorgetti e Lanzalone parlano, stabiliscono un ponte.

Su tutta questa vicenda è intervenuta la Magistratura. Si sa che quanto è finora emerso è solo la punta di un iceberg molto più profondo. Sino ad ora, comunque, il governo non sembra scalfito più di tanto. Lanzalone pagherà, con ogni probabilità, ma il suo ruolo nella vicenda è ormai concluso. E’ stata la persona giusta al momento giusto, la persona che, mandata a risolvere i problemi di Virginia Raggi, è riuscita a farsi conoscere e a permettere il dialogo. Perché, in quei giorni di marzo, il primo problema da risolvere era mettere in comunicazione mondi lontani come quello della Lega e quello dei 5stelle. Vista la storia delle due formazioni politiche non c’erano molti contatti attivabili perché si potesse dialogare lontano dai riflettori. Parnasi (e, forse, quel Bisignani che frequenta la sua famiglia da quarant’anni) è stato il canale giusto al momento giusto.

Il 15 marzo le prime pagine dei giornali cominciano a titolare su un possibile dialogo tra 5 stelle e Lega. Quello stesso giorno, al telefono, Luca Parnasi si pavoneggia «Il governo lo sto a fa’ io, eh! non so se ti è chiara questa situazione».

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