Nel mirino degli investigatori, come si può leggere nell'ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip di Napoli Anna Laura Alfano, ci sono altri soldati. Compagni di addestramento dei due gambiani, i cui destini e destinazioni al momento sono sconosciute. Si sa solo che l'autorità italiana trasmetterà gli atti dell'inchiesta a Francia, Germania e Spagna
Una “rete” di gambiani addestrati, giorno e notte, in un campo chiamato mo’askar nel deserto della Libia insieme a egiziani, sudanesi, kenyoti. Settanta, forse cento soldati di Isis che, alla fine di due mesi di lezioni su come usare i mitragliatori Ak47 ed esplosivi, hanno lasciato i capannoni per diventare jays ovvero soldati sul territorio, istishad con missioni da kamikaze, o egeremas, cioè militari che possono trasformarsi in martiri in nome di Allah. Dopo l’allenamento il gruppo ha prestato il giuramento “al califfo dei musulmani Abu Bakr Al Quraishi Al Baghdadi” il creatore dello Stato Islamico. Scoprire chi e dove siano, cosa hanno fatto o faranno sembra essere la missione degli inquirenti napoletani che hanno arrestato due presunti terroristi, ma cercano di dare un volto e un nome a tutti gli altri. “Sono soldati dello Stato islamico”- come spiega il generale del Ros Pasquale Angelosanto – i due gambiani Algie Touray e Osman Sillah fermati dagli uomini di Digos e Ros in due operazioni distinte, ma nel solco di un’unica indagine per associazione a delinquere finalizzata al terrorismo della Procura di Napoli guidata da Giovanni Melillo. Nel mirino degli investigatori, come si può leggere nell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip di Napoli Anna Laura Alfano, che ha convalidato il decreto di fermo del pm Gianfranco Scarfò e del procuratore aggiunto Rosa Volpe, ci sono altri soldati. Compagni di addestramento dei due gambiani, i cui destini e destinazioni al momento sono sconosciute: solo di alcuni si sa che sono stati uccisi in zona di guerra. Per questo motivo l’autorità italiana trasmetterà gli atti dell’inchiesta a Francia, Germania e Spagna. È proprio l’intelligence spagnola che aveva segnalato qualche mese fa Touray (Abu Jafar) ai detective italiani inoltrando quel video intercettato su Telegram in cui giurava di morire in nome di Allah.
Touray, 21 anni, fermato in aprile a Licola (Napoli), avrebbe dovuto lanciarsi sulla folla con un’auto come ormai nella tradizione degli attentati di Daesh in Europa. Sillah, fermato il 20 giugno, era “pronto a colpire”. Dopo che gli investigatori hanno assistito a un “delirio religioso”, provocato anche dalla droga, e alla mimica di chi imbraccia un mitragliatore, hanno deciso di procedere. La frase, a tratti incomprensibile, che accompagnava quella mimica è stata in parte tradotta così: “Prendere la pistola per sparare e uccidere ….ok vieni qua per favore vieni…”. Pochi giorni prima Abou Lukman (il suo nome di battaglia) ” in evidente stato di alterazione psicotica si era unito per alcuni minuti ad una processione religiosa cattolica sino al limitare di una chiesa, per poi vagabondare nella campagna leccese, scavalcare la recinzione di una villetta ed essere” trovato dai carabinieri molto confuso. Scrive il gip che interrogato Sillah “si è mostrato lucido ed ha ammesso di aver fatto uso di hashish e cocaina. Ha spiegato con grande consapevolezza e lucidità che la luce interiore che lo spinge è quella di obbedire ai dettami di Allah finalizzati al bene, anche se ha un segreto che non può Rivelare…”. Sillah, come Touray, è un richiedente asilo e in quel momento si trovava in una casa di Castri di Lecce, perché dopo essere stato ospite del Cara di Bari, il 29 maggio 2018, era stato ammesso a partecipare ad un progetto dello Sprar (sistema di accoglienza dei comuni) di Lecce. Entrambi sono comunque arrivati in Italia attraverso le rotte dell’immigrazione clandestina.
Dopo alcuni interrogatori e dopo essere entrato in contraddizione, il 15 maggio è stato Touray che ha cominciato a raccontare “tutta la verità circa il mio viaggio in Libia“. Un racconto che ha portato all’identificazione e all’individuazione di Sillah. Il viaggio era iniziato con tredici persone in Gambia e si era concluso in Libia, passando per Mali e Niger: prima in traghetto, poi in autobus e infine in pick up. A gestirlo era un uomo che ora risulta indagato, Batch Jobe, che ha pagato i gambiani per raggiungere il campo. Era stato Jobe a dire a Touray “quello che volevano fare in Spagna e Francia… Mi ha spiegato che reclutavano persone”. Nel campo gli istruttori erano sette: “Ci hanno insegnato ad usare le armi (AK47 e altre armi installate a bordo di carri) e ci hanno preparato per avere resistenza”. Tutto questo perché il capo “ci ha riferito che noi dovevamo combattere per la causa di tante altre persone. La causa è quella religiosa”. Finito l’addestramento, racconta Touray, i soldati hanno ricevuto un kaftan e le munizioni. Il leader del campo “ci diceva che dovevamo fare un duro addestramento (a volte interrotto da incursioni aeree, ndr) perché dovevamo essere pronti a combattere in ogni parte del mondo dove erano presenti miscredenti anche se non ci sono stati fatti specifici riferimenti all’Europa”. Comunque “se fossi morto per la causa della jihad facendomi esplodere avrei raggiunto e meritato il paradiso“.