A due mesi dall'attentato che il 9 aprile scorso ha ucciso il 42enne Matteo Vinci e ferito suo padre, i carabinieri di Vibo e la Dda di Catanzaro hanno sottoposto a fermo i loro vicini di casa, da sempre indicati dalla madre della vittima come gli esecutori materiali
Ci hanno messo meno di due mesi i carabinieri di Vibo Valentia e la Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro per fare luce sull’autobomba di Limbadi, che il 9 aprile scorso ha ucciso Matteo Vinci e ferito gravemente suo padre Francesco. Il quarantaduenne Matteo Vinci è stato ucciso come un boss nel regno della cosca Mancuso. L’ex rappresentante di medicinali, però, un boss non era. Piuttosto con la sua famiglia non aveva piegato la testa davanti a una delle cosche più feroci della Calabria. Le indagini, coordinate dal procuratore Nicola Gratteri e dai suoi sostituti, hanno portato stanotte ai fermi di sei soggetti esponenti della famiglia mafiosa dei Mancuso. E sono gli stessi che, sin dall’inizio, la signora Rosaria Scarpulla ha indicato come mandanti ed esecutori dell’attentato al figlio e al marito.
Il blitz è scattato stamattina prima dell’alba. In carcere è finita Rosaria Mancuso di 63 anni, parente dei boss di Limbadi, che da oltre 20 anni era la causa delle angherie subite dalla famiglia Vinci. Oltre a lei, i carabinieri hanno arrestato la figlia Lucia Di Grillo (29 anni) e il genero Vito Barbara (28 anni). Sono loro tre i mandanti dell’omicidio di Matteo Vinci e del tentato omicidio del padre Francesco ancora ricoverato al centro ustioni di Palermo. Con loro in carcere sono finiti Salvatore Mancuso, Domenico Di Grillo ( rispettivamente fratello e marito di Rosaria Mancuso) e l’altra figlia Rosina Di Grillo. Tutti sono accusati anche di detenzione di armi e di tutta una serie di aggressioni subite dalla famiglia Vinci nel tentativo dei Mancuso di accaparrarsi i loro terreni.
Nelle intercettazioni, in sostanza, gli indagati hanno confermato il loro coinvolgimento nell’attentato con l’autobomba. In particolare, durante le loro conversazioni, è emerso che cercavano di informarsi sulle notizie pubblicate sui giornali in merito alla vicenda e si rammaricavano del fatto che Francesco Vinci si è salvato: “Secondo me – è la frase intercettata a Vito Barbara – quando esce più forte vengono i ‘cani’ (i carabinieri, ndr)… non serve neanche che ce lo pulizzamo più (modo di dire che intende di eliminarlo). È finita la pacchia”.
Un altro riscontro, i carabinieri del Comando provinciale di Vibo Valentia e del Ros lo hanno trovato nelle intercettazioni registrate dentro il carcere di Asti dove è detenuto Sabatino Di Grillo. Nella sala colloqui della casa circondariale, infatti, quest’ultimo ha avuto una discussione con la moglie Daniela Mazzeo. La donna ha rinfacciato al figlio della Mancuso l’attentato che la sua famiglia ha portato a termine contro i Vinci: “Fallo, fallo, come ha fatto tua madre? Questo siete! Una schifezza! Una schifezza!.. Sei una merda! Tu sei una merda come la famiglia di tuo padre perché avete i coglioni per bla bla bla e far scoppiare bombe… cazzate… omissis… e infatti si è visto, lo avete fatto!”.
I dettagli dell’operazione “Demetra” sono stati illustrati stamattina dal procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri secondo cui “è stato risolto non solo il caso dell’autobomba ma anche una presenza mafiosa su una parte del territorio di Limbadi”. “L’indagine – ha aggiunto – non riguarda solo la lite tra due famiglie per un fazzoletto di terra, ma è l’esternazione del potere di una parte della famiglia Mancuso su un territorio. I Mancuso, infatti, pur non essendo proprietari di quei terreni, volevano di fatto possederli”.
Per farlo non hanno esitato a piazzare il tritolo all’interno della Ford Fiesta di Matteo Vinci e farlo esplodere con un radiocomando. All’indomani dell’attentato, la signora Rosaria Scarpulla, ribattezzata la “mamma coraggio”, aveva puntato il dito contro i suoi confinanti di terreno Rosaria Mancuso e Domenico Di Grillo: “Sono sicura che sono stati loro ad ucciderlo. È dal 1993 che sono iniziati questi soprusi. Volevano la nostra terra”. L’avvocato Giuseppe De Pace, che assiste la famiglia Vinci, in queste settimane ha più volte chiesto protezione per la signora Scarpulla sostenendo che l’autobomba del 9 aprile “non è stato un fatto di cronaca, ma un fatto terroristico mafioso”.
Dal provvedimento di fermo, inoltre, è emerso che i Mancuso stessero controllando i movimenti della madre di Matteo Vinci. In particolare lo faceva Lucia Di Grillo: “Si denota chiaramente – scrivono il pm Andrea Mancuso nel provvedimento di fermo – come la stessa osservasse e controllasse Rosaria Scarpulla nelle azioni della vita quotidiana”.
“Per noi era importante la soluzione di questo caso. – ha ribadito Gratteri -. Nel circondario di Vibo Valentia abbiamo tre pubblici ministeri e una polizia giudiziaria di qualità. L’omicidio è avvenuto in modo ‘spettacolare’. Matteo Vinci poteva essere ucciso con un fucile o con una pistola. Ma hanno utilizzato un’autobomba perché hanno voluto mandare un messaggio di terrore alla collettività e all’intera comunità di Vibo Valentia che non deve stare assolutamente al gioco e al giogo di queste dinastie mafiose. In questo giro ci siamo e ci siamo alla grande”.
Il procuratore di Catanzaro, in sostanza, chiede una maggiore fiducia della società civile nello Stato: “Questa è la volta buona che la gente si possa e si debba ribellare. O adesso o mai più. Tocca ai cittadini denunciare convintamente perché siamo nelle condizioni di dare risposte sul piano giudiziario. Oltre alle dichiarazioni della signora Scarpulla, non abbiamo avuto altre collaborazioni utili. Ci siamo avvalsi delle nostre attività tecniche e della capacità dei carabinieri di monitorare i punti giusti”.
Perché si è arrivati alla morte di Matteo Vinci visto che i contrasti per quei terreni sono sorti da più di 20 anni? A questa domanda, Gratteri risponde a tono: “Questo lo deve chiedere a chi c’era prima di me. Io sono qui da due anni e mi occupo della criminalità organizzata nei quattro distretti (Catanzaro, Vibo Valentia, Cosenza e Crotone, ndr). Non so dire cosa hanno fatto o non hanno fatto i miei colleghi o le forze dell’ordine che c’erano prima. Ma anche cosa hanno fatto, o non hanno fatto, i giornalisti che vedevano e non hanno scritto. Facciamoci un processo tutti e non pensiamo solo alla magistratura e alle forze dell’ordine. Qua c’è stato pure un giornalismo che non si è impegnato e si girava dall’altra parte. Le indagini sono una cosa seria e questo provvedimento di fermo è fatto di prove e non di indizi. In pochi mesi abbiamo risolto un omicidio consumato con un’autobomba in una delle aree a più alta densità mafiosa di Italia. Ritengo che sia un ottimo risultato. Adesso non ci sono alibi più per nessuno”.