Nella sconfitta alle elezioni amministrative di Massa, Pisa, Siena e Imola c’è almeno una buona notizia per il Pd: è finita l’ambiguità. Impossibile essere un partito a vocazione maggioritaria quando continui a perdere: il Pd è minoranza, è un’opposizione che lotta per non sparire. Che si deve reinventare.
Un disastro? Per molti aspetti sì, per i dirigenti ma anche per quei molti italiani che osservano i risultati dei tanti errori del Partito democratico di questi anni: prima hanno generato i Cinque Stelle, poi hanno aperto le praterie all’avanzata di Matteo Salvini e della sua Lega che sfidano apertamente non solo gli avversari politici ma anche le istituzioni, italiane ed europee, e anche i valori che a quelle istituzioni danno fondamento.
Ora il Pd è fuori dalla palude. E’ nella invidiabile condizione di chi non ha nulla da perdere. Può finalmente liberarsi di Paolo Gentiloni con tutto quello che rappresenta, cioè “la mummificazione dell’establishment”, come lo ha descritto in privato un alto dirigente del Pd. Gentiloni ha rappresentato in questi due anni l’ultima illusione che ci fosse uno status quo da preservare. Una forza d’inerzia capace di resistere a quella del cambiamento. Quella fase è finita.
Adesso il Pd ha davanti poche opzioni.
La prima: modello Gentiloni. Il Pd può insistere con la scelta di essere il partito dell’establishment, puntare ad assorbire Forza Italia, costruire un grande fronte repubblicano come ultimo argine ai populisti, magari guidato da Gentiloni come campione di Schengen, della morigeratezza di bilancio, della generazione Erasmus e di quella politica che si fa in cravatta e sottovoce, senza parolacce. E’una scelta che può anche diventare inevitabile se Salvini continuerà la sua evoluzione in un Viktor Orbàn italiano e metterà in discussione la democrazia liberale e le sue garanzie, esito sempre meno fantascientifico. Il principale rischio di questa linea è di scoprire, troppo tardi, di essere minoranza. E quindi di rendere inevitabile un esito – l’istituzionalizzazione del populismo – che oggi è solo probabile.
Seconda opzione: modello Corbyn. Andare a riprendere uno per uno gli elettori persi tra i Cinque Stelle con una politica di testimonianza pura e di sinistra, senza nessuna ambizione di vincere nell’immediato. Con un’agenda davvero socialdemocratica fatta di welfare, redistribuzione, equità, spesa pubblica e tasse. Per riuscirci serve una nuova leadership che sappia dare freschezza a vecchie ricette. Non può essere Bersani il Corbyn italiano, ma neppure un Fratoianni qualsiasi (inteso come simbolo di tutte le seconde linee promosse per ritiro del leader, nel suo caso Nichi Vendola). Magari un Maurizio Landini o una Susanna Camusso dopo la fine dell’esperienza alla guida della Cgil. Il rischio è di scoprire che, come dimostra l’esperienza di LeU, per una forza di questo tipo non c’è spazio.
Terza opzione: modello Robin. Il Pd può decidere di costruire un nuovo centrosinistra che includa i Cinque Stelle. Questo chiaramente significa essere il junior partner (altrimenti detto stampella). E’ vero che, come canta Cesare Cremonini, “nessuno vuole essere Robin”. Ma quando non puoi ambire al ruolo di Batman, meglio essere Robin che niente. Anche per questa opzione serve un nuovo gruppo dirigente e la scelta di abbandonare i progetti di sfondamento al centro. C’è poi l’incertezza se tutto questo vada bene ai Cinque Stelle (Alessandro Di Battista ha detto più volte che tra Pd e Lega, è meglio la Lega perché è meno legata alle lobby). A cementare questa alleanza servirebbe poi un nome non contestabile, come era quello di Stefano Rodotà, candidato dal M5S nel 2013 e apprezzato da vasti pezzi del mondo Pd. Magari un Roberto Saviano, un Raffaele Cantone, o – meglio ancora – Gianni Cuperlo, l’unico che ha mantenuto una sofferta dignità in questi anni di macerie.
Quarta opzione: modello Macron. Se il Pd sceglie di completare il percorso seguito in questi anni, non gli resta che liberarsi del tutto delle ultime tracce dell’identità post-comunista, dei rapporti con la Cgil e con i suoi tradizionali mondi di riferimento. Può decidere di occupare quello spazio al centro lasciato libero da Forza Italia e dal centrodestra non sovranista e proporre politiche radicali per smuovere la crescita. Ma molto radicali, tipo abolire Tar e Corte dei Conti, zone con fiscalità a livelli irlandesi per spingere gli investimenti al Sud, liberalizzazioni drastiche di professioni e settori protetti (dalle autostrade ai trasporti all’avvocatura) e proporsi come alternativa alla sostanziale promessa reazionaria del sovranismo. Anche per fare questo ci vogliono nuovi leader, un nuovo nome e una nuova forma partito, oltre a un coinvolgimento di tutti quei pezzi di potenziale establishment tenuti ai margini dalle cariatidi che presidiano gli attuali assetti di potere.
Sono quattro strade molto diverse tra loro. Grazie al disastro delle Amministrative, il Pd è finalmente libero di scegliere.
Stefano Feltri
Giornalista
Politica - 26 Giugno 2018
Amministrative 2018, per il Pd il disastro è una buona notizia
Nella sconfitta alle elezioni amministrative di Massa, Pisa, Siena e Imola c’è almeno una buona notizia per il Pd: è finita l’ambiguità. Impossibile essere un partito a vocazione maggioritaria quando continui a perdere: il Pd è minoranza, è un’opposizione che lotta per non sparire. Che si deve reinventare.
Un disastro? Per molti aspetti sì, per i dirigenti ma anche per quei molti italiani che osservano i risultati dei tanti errori del Partito democratico di questi anni: prima hanno generato i Cinque Stelle, poi hanno aperto le praterie all’avanzata di Matteo Salvini e della sua Lega che sfidano apertamente non solo gli avversari politici ma anche le istituzioni, italiane ed europee, e anche i valori che a quelle istituzioni danno fondamento.
Ora il Pd è fuori dalla palude. E’ nella invidiabile condizione di chi non ha nulla da perdere. Può finalmente liberarsi di Paolo Gentiloni con tutto quello che rappresenta, cioè “la mummificazione dell’establishment”, come lo ha descritto in privato un alto dirigente del Pd. Gentiloni ha rappresentato in questi due anni l’ultima illusione che ci fosse uno status quo da preservare. Una forza d’inerzia capace di resistere a quella del cambiamento. Quella fase è finita.
Adesso il Pd ha davanti poche opzioni.
La prima: modello Gentiloni. Il Pd può insistere con la scelta di essere il partito dell’establishment, puntare ad assorbire Forza Italia, costruire un grande fronte repubblicano come ultimo argine ai populisti, magari guidato da Gentiloni come campione di Schengen, della morigeratezza di bilancio, della generazione Erasmus e di quella politica che si fa in cravatta e sottovoce, senza parolacce. E’una scelta che può anche diventare inevitabile se Salvini continuerà la sua evoluzione in un Viktor Orbàn italiano e metterà in discussione la democrazia liberale e le sue garanzie, esito sempre meno fantascientifico. Il principale rischio di questa linea è di scoprire, troppo tardi, di essere minoranza. E quindi di rendere inevitabile un esito – l’istituzionalizzazione del populismo – che oggi è solo probabile.
Seconda opzione: modello Corbyn. Andare a riprendere uno per uno gli elettori persi tra i Cinque Stelle con una politica di testimonianza pura e di sinistra, senza nessuna ambizione di vincere nell’immediato. Con un’agenda davvero socialdemocratica fatta di welfare, redistribuzione, equità, spesa pubblica e tasse. Per riuscirci serve una nuova leadership che sappia dare freschezza a vecchie ricette. Non può essere Bersani il Corbyn italiano, ma neppure un Fratoianni qualsiasi (inteso come simbolo di tutte le seconde linee promosse per ritiro del leader, nel suo caso Nichi Vendola). Magari un Maurizio Landini o una Susanna Camusso dopo la fine dell’esperienza alla guida della Cgil. Il rischio è di scoprire che, come dimostra l’esperienza di LeU, per una forza di questo tipo non c’è spazio.
Terza opzione: modello Robin. Il Pd può decidere di costruire un nuovo centrosinistra che includa i Cinque Stelle. Questo chiaramente significa essere il junior partner (altrimenti detto stampella). E’ vero che, come canta Cesare Cremonini, “nessuno vuole essere Robin”. Ma quando non puoi ambire al ruolo di Batman, meglio essere Robin che niente. Anche per questa opzione serve un nuovo gruppo dirigente e la scelta di abbandonare i progetti di sfondamento al centro. C’è poi l’incertezza se tutto questo vada bene ai Cinque Stelle (Alessandro Di Battista ha detto più volte che tra Pd e Lega, è meglio la Lega perché è meno legata alle lobby). A cementare questa alleanza servirebbe poi un nome non contestabile, come era quello di Stefano Rodotà, candidato dal M5S nel 2013 e apprezzato da vasti pezzi del mondo Pd. Magari un Roberto Saviano, un Raffaele Cantone, o – meglio ancora – Gianni Cuperlo, l’unico che ha mantenuto una sofferta dignità in questi anni di macerie.
Quarta opzione: modello Macron. Se il Pd sceglie di completare il percorso seguito in questi anni, non gli resta che liberarsi del tutto delle ultime tracce dell’identità post-comunista, dei rapporti con la Cgil e con i suoi tradizionali mondi di riferimento. Può decidere di occupare quello spazio al centro lasciato libero da Forza Italia e dal centrodestra non sovranista e proporre politiche radicali per smuovere la crescita. Ma molto radicali, tipo abolire Tar e Corte dei Conti, zone con fiscalità a livelli irlandesi per spingere gli investimenti al Sud, liberalizzazioni drastiche di professioni e settori protetti (dalle autostrade ai trasporti all’avvocatura) e proporsi come alternativa alla sostanziale promessa reazionaria del sovranismo. Anche per fare questo ci vogliono nuovi leader, un nuovo nome e una nuova forma partito, oltre a un coinvolgimento di tutti quei pezzi di potenziale establishment tenuti ai margini dalle cariatidi che presidiano gli attuali assetti di potere.
Sono quattro strade molto diverse tra loro. Grazie al disastro delle Amministrative, il Pd è finalmente libero di scegliere.
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Roma, 22 feb. (Adnkronos) - "Nessun tumore al cervello e nessuna infezione da polmonite batterica, come erroneamente riportato dalla Direzione sanitaria del Mar Rosso. Mattia è morto per un’emorragia causata da un aneurisma cerebrale e si esclude con certezza la presenza di altre patologie concomitanti. Questo quanto emerge dopo l'esame effettuato dall'Azienda Ospedaliero Universitaria di Udine". Così l'avvocato Maria Virginia Maccari, che assiste i familiari di Mattia Cossettini, morto a 9 anni mentre si trovava in vacanza a Marsa Alam.
"Mattia era felicissimo della vacanza e fino a quella tragica escursione in barca non aveva manifestato alcun sintomo, nemmeno un raffreddore. Tanti sorrisi fino all’ultimo momento, allegro come tutti lo conoscevano, ma durante l’escursione in barca non c’è stata nessuna possibilità di chiamare o di ricevere i soccorsi. Secondo i genitori vi è stata sicuramente una sottovalutazione del quadro clinico iniziale; c’è poi stato un errore di refertazione da parte dei medici dell’ospedale generale governativo di Marsa Alam, che hanno interpretato la Tc senza intervenire poi su Mattia per l’assenza di attrezzature, tenuto solamente in osservazione mentre i sanitari stimavamo le più svariate patologie, dal diabete alla broncopolmonite, citando addirittura il Covid come causa di un’ossigenazione bassa quando invece Mattia non aveva neanche la tosse", spiega.
"Rimasto invece su una lettiga di ospedale, con il cuscino della camera del resort, mentre i genitori tentavano invano un trasferimento presso un altro ospedale. La famiglia sta ancora approfondendo gli aspetti relativi all’incidenza di una corretta e tempestiva diagnosi, ma quello che emerge è la necessità di sensibilizzare il Governo egiziano per favorire protocolli nella gestione delle emergenze sanitarie nella zona del mar Rosso. Il primo ospedale attrezzato è situato a circa tre ore di auto e - sottolinea - non sono disponibili mezzi di trasporto rapidi per raggiungerlo. Probabilmente sarebbe sufficiente un piccolo contributo economico da parte delle numerosissime strutture alberghiere per garantire un servizio sanitario adeguato, oppure realizzare un eliporto per trasferire i pazienti gravi, raggiungendo un luogo idoneo. Si stima la presenza di circa quindici milioni di italiani in Egitto ogni anno, di cui un terzo circa nella zona del Mar Rosso".
"Nonostante tutte le immersioni subacquee effettuate in zona, anche una 'semplice' embolia polmonare diventerebbe critica a causa dell’assenza nelle vicinanze di una camera iperbarica. In alcune situazioni potrebbe fare la differenza anche la refertazione a distanza, facilmente possibile con l’utilizzo della telemedicina e nel caso di Mattia si sarebbe molto probabilmente evitata l'errata interpretazione delle immagini della Tc, fatto che ha di certo avuto un peso psicologico importante sui genitori. Non è chiaro se il tempo perso, dai primi sintomi interpretati in modo superficiale dai medici, all’incapacità di intervenire in modo attivo presso l’ospedale di Marsa Alam, potessero cambiare l’esito della vicenda. È però evidente come, qualsiasi necessità sanitaria improvvisa, che possa essere clinicamente complessa ma che nel nostro contesto sociale risulti gestibile, le possibilità di sopravvivenza in una zona così turistica e famosa siano sorprendentemente scarse. I genitori di Mattia, Marco e Alessandra, si augurano che la morte di loro figlio possa servire ad avviare questo adeguamento sanitario in Egitto per il bene dí tutti gli altri turisti italiani, non consapevoli della situazione fatiscente che potrebbero scoprire appena varcate le mura dei lussuosi resort", conclude.
Milano, 21 feb. (Adnkronos) - Con una produzione dal valore di 277 milioni di euro nel 2023, la Lombardia è la quarta regione italiana più rilevante nel comparto florovivaistico. E' quanto afferma la Coldiretti regionale, sulla base del primo Rapporto nazionale sul settore realizzato dal centro studi Divulga e da Ixe’ con Coldiretti, in occasione della giornata conclusiva di Myplant&Garden, una delle più importanti manifestazioni internazionali per i professionisti delle filiere del verde in corso a Rho Fiera Milano.
In Lombardia, precisa la Coldiretti regionale su dati Registro delle Imprese, sono oltre 2.500 le aziende florovivaistiche, a cui vanno aggiunte quelle che si dedicano alla cura e alla manutenzione del paesaggio, per una filiera del verde lombarda che in totale può contare su più di 7.900 imprese. Sulla base del rapporto Divulga/Ixè, nel 2024 il florovivaismo Made in Italy ha raggiunto il valore massimo di sempre a quota 3,3 miliardi di euro, grazie anche al traino dell’export che chiuderà l’anno a 1,3 miliardi, ma sulle aziende nazionali pesa oggi la difficile situazione internazionale, a partire dalla guerra in Ucraina. Proprio a causa del conflitto, le aziende hanno subito un aumento dei costi del +83% per i prodotti energetici e del +45% per i fertilizzanti rispetto al 2020, oltre a un +29% per altri input produttivi quali sementi e piantine.
Costi in progressivo aumento, che ancora fanno fatica ad essere riassorbiti, tanto più se si considera la concorrenza sleale che pesa sulle imprese tricolori a causa delle importazioni a basso costo dall’estero, dove non si rispettano le stesse regole in termini di utilizzo dei prodotti fitosanitari, ma anche di tutela dei diritti dei lavoratori e dell’ambiente.
Non va poi trascurato, avverte Coldiretti, l’impatto dei cambiamenti climatici: secondo il rapporto Divulga/Ixe’ due aziende agricole su tre (66%) hanno subito danni nell’ultimo triennio a causa di eventi estremi, tra grandinate, trombe d’aria, alluvioni e siccità che a più riprese hanno interessato il territorio nazionale. Il risultato di tutti questi fattori è che più di un terzo delle aziende florovivaistiche italiane denuncia difficoltà economiche.
Un quadro dinanzi al quale Coldiretti chiede misure di sostegno alle imprese per contrastare i cambiamenti climatici che, oltre agli eventi estremi, hanno moltiplicato le malattie che colpiscono le piante, spesso peraltro diffuse a causa delle importazioni di prodotti stranieri.
Ma serve anche puntare sulla promozione dei prodotti 100% Made in Italy, mettendone in risalto l’elevato valore ambientale, oltre che gli effetti positivi dal punto di vista della salute e della lotta all’inquinamento. Importante anche una maggiore considerazione per il settore all’interno della Politica agricola europea e, di riflesso, nelle politiche di sviluppo rurale.
Milano, 21 feb. (Adnkronos) - Con una produzione dal valore di 277 milioni di euro nel 2023, la Lombardia è la quarta regione italiana più rilevante nel comparto florovivaistico. E' quanto afferma la Coldiretti regionale, sulla base del primo Rapporto nazionale sul settore realizzato dal centro studi Divulga e da Ixe’ con Coldiretti, in occasione della giornata conclusiva di Myplant&Garden, una delle più importanti manifestazioni internazionali per i professionisti delle filiere del verde in corso a Rho Fiera Milano.
In Lombardia, precisa la Coldiretti regionale su dati Registro delle Imprese, sono oltre 2.500 le aziende florovivaistiche, a cui vanno aggiunte quelle che si dedicano alla cura e alla manutenzione del paesaggio, per una filiera del verde lombarda che in totale può contare su più di 7.900 imprese. Sulla base del rapporto Divulga/Ixè, nel 2024 il florovivaismo Made in Italy ha raggiunto il valore massimo di sempre a quota 3,3 miliardi di euro, grazie anche al traino dell’export che chiuderà l’anno a 1,3 miliardi, ma sulle aziende nazionali pesa oggi la difficile situazione internazionale, a partire dalla guerra in Ucraina. Proprio a causa del conflitto, le aziende hanno subito un aumento dei costi del +83% per i prodotti energetici e del +45% per i fertilizzanti rispetto al 2020, oltre a un +29% per altri input produttivi quali sementi e piantine.
Costi in progressivo aumento, che ancora fanno fatica ad essere riassorbiti, tanto più se si considera la concorrenza sleale che pesa sulle imprese tricolori a causa delle importazioni a basso costo dall’estero, dove non si rispettano le stesse regole in termini di utilizzo dei prodotti fitosanitari, ma anche di tutela dei diritti dei lavoratori e dell’ambiente.
Non va poi trascurato, avverte Coldiretti, l’impatto dei cambiamenti climatici: secondo il rapporto Divulga/Ixe’ due aziende agricole su tre (66%) hanno subito danni nell’ultimo triennio a causa di eventi estremi, tra grandinate, trombe d’aria, alluvioni e siccità che a più riprese hanno interessato il territorio nazionale. Il risultato di tutti questi fattori è che più di un terzo delle aziende florovivaistiche italiane denuncia difficoltà economiche.
Un quadro dinanzi al quale Coldiretti chiede misure di sostegno alle imprese per contrastare i cambiamenti climatici che, oltre agli eventi estremi, hanno moltiplicato le malattie che colpiscono le piante, spesso peraltro diffuse a causa delle importazioni di prodotti stranieri.
Ma serve anche puntare sulla promozione dei prodotti 100% Made in Italy, mettendone in risalto l’elevato valore ambientale, oltre che gli effetti positivi dal punto di vista della salute e della lotta all’inquinamento. Importante anche una maggiore considerazione per il settore all’interno della Politica agricola europea e, di riflesso, nelle politiche di sviluppo rurale.
Milano, 21 feb. (Adnkronos) - Con una produzione dal valore di 277 milioni di euro nel 2023, la Lombardia è la quarta regione italiana più rilevante nel comparto florovivaistico. E' quanto afferma la Coldiretti regionale, sulla base del primo Rapporto nazionale sul settore realizzato dal centro studi Divulga e da Ixe’ con Coldiretti, in occasione della giornata conclusiva di Myplant&Garden, una delle più importanti manifestazioni internazionali per i professionisti delle filiere del verde in corso a Rho Fiera Milano.
In Lombardia, precisa la Coldiretti regionale su dati Registro delle Imprese, sono oltre 2.500 le aziende florovivaistiche, a cui vanno aggiunte quelle che si dedicano alla cura e alla manutenzione del paesaggio, per una filiera del verde lombarda che in totale può contare su più di 7.900 imprese. Sulla base del rapporto Divulga/Ixè, nel 2024 il florovivaismo Made in Italy ha raggiunto il valore massimo di sempre a quota 3,3 miliardi di euro, grazie anche al traino dell’export che chiuderà l’anno a 1,3 miliardi, ma sulle aziende nazionali pesa oggi la difficile situazione internazionale, a partire dalla guerra in Ucraina. Proprio a causa del conflitto, le aziende hanno subito un aumento dei costi del +83% per i prodotti energetici e del +45% per i fertilizzanti rispetto al 2020, oltre a un +29% per altri input produttivi quali sementi e piantine.
Costi in progressivo aumento, che ancora fanno fatica ad essere riassorbiti, tanto più se si considera la concorrenza sleale che pesa sulle imprese tricolori a causa delle importazioni a basso costo dall’estero, dove non si rispettano le stesse regole in termini di utilizzo dei prodotti fitosanitari, ma anche di tutela dei diritti dei lavoratori e dell’ambiente.
Non va poi trascurato, avverte Coldiretti, l’impatto dei cambiamenti climatici: secondo il rapporto Divulga/Ixe’ due aziende agricole su tre (66%) hanno subito danni nell’ultimo triennio a causa di eventi estremi, tra grandinate, trombe d’aria, alluvioni e siccità che a più riprese hanno interessato il territorio nazionale. Il risultato di tutti questi fattori è che più di un terzo delle aziende florovivaistiche italiane denuncia difficoltà economiche.
Un quadro dinanzi al quale Coldiretti chiede misure di sostegno alle imprese per contrastare i cambiamenti climatici che, oltre agli eventi estremi, hanno moltiplicato le malattie che colpiscono le piante, spesso peraltro diffuse a causa delle importazioni di prodotti stranieri.
Ma serve anche puntare sulla promozione dei prodotti 100% Made in Italy, mettendone in risalto l’elevato valore ambientale, oltre che gli effetti positivi dal punto di vista della salute e della lotta all’inquinamento. Importante anche una maggiore considerazione per il settore all’interno della Politica agricola europea e, di riflesso, nelle politiche di sviluppo rurale.
Gaza, 22 feb. (Adnkronos) - Gli ostaggi israeliani Eliya Cohen, Omer Shem Tov e Omer Wenkert sono stati trasferiti alla Croce Rossa Internazionale dopo essere saliti sul palco a Nuseirat, nel centro di Gaza, prima del rilascio da parte di Hamas.
Roma, 22 feb. (Adnkronos Salute) - "In Italia sono sempre più giovani medici attratti dalla ginecologia oncologica: questa specializzazione conta bravi chirurghi intorno ai 45 anni, in Italia sono circa 50, tra cui molte donne. E loro saranno tra i protagonisti domani del simposio 'Innovation in Gyn Onc', appuntamento voluto dalla Società italiana di ginecologia e ostetricia all’interno di Esgo", European Gynaecological Oncology Congress, in corso fino a domenica a Roma (Hotel dei Congressi all’Eur). Così all’Adnkronos Salute Vito Trojano, presidente di Sigo alla vigilia del meeting all’interno del Congresso Esgo 2025, un'esperienza formativa con oltre 50 sessioni scientifiche che in questa tre giorni di lavori presentano gli ultimi sviluppi medici e scientifici nella ricerca, nel trattamento e nella cura dei tumori ginecologici, tenuti da esperti di fama mondiale.
"Sarà una giornata molto importante perché non solo è un connubio fra la Società europea di ginecologia oncologica e la Sigo – spiega Trojano – ma perché dedicata alle nuove generazioni. Obiettivo: poter fare in modo che la Ginecologia oncologica sia sempre più attrattiva e di interesse per i giovani che aspirano a fare i medici".
Tra i temi al centro del simposio, nuove proposte per la vaccinazione e lo screening del cancro cervicale, prevenzione del cancro ovarico oltre la chirurgia, medicina di precisione in oncologia ginecologica, novità dalla biopsia liquida, algoritmi terapeutici nel carcinoma ovarico di prima linea, efficacia e sopravvivenza a lungo termine con gli inibitori di Parp. E ancora: la salute digitale in oncologia ginecologica, telechirurgia, telesonografia, teleconsulenza e Hipec (chemioterapia ipertermica intraperitoneale) in oncologia ginecologica. "Ampio spazio sarà dato ovviamente alle nuove terapie mediche, alle tecniche chirurgiche e all’Intelligenza artificiale con cui i futuri chirurghi si addestrano e si formano", conclude Trojano.
Gaza, 22 feb. (Adnkronos) - A Nuseirat, nel centro della Striscia di Gaza, verranno rilasciati tre ostaggi (Omer Shem Tov, Eliya Cohen e Omer Wenkert) rapiti il 7 ottobre, anziché quattro come si pensava in precedenza. Il quarto ostaggio, Hisham al-Sayed, rapito nel 2015, verrà liberato in un altro luogo e senza una cerimonia pubblica. I veicoli della Croce Rossa sono presenti a Nuseirat, ma sembra che ci potrebbe essere ritardo nella consegna.