È destinata a creare un precedente giurisprudenziale la sentenza di condanna in primo grado a 8 anni per terrorismo di Mohamed Kamel Eddine Khemiri, pronunciata dalla III sezione della Corte d’Assise di Napoli che ha accolto le richieste del pm anticamorra Maurizio De Marco. Il dispositivo firmato dal giudice Roberto Vescia condanna il 43enne tunisino per appartenenza all’Isis attraverso attività di propaganda al jihad sui social network. E ribalta le pronunce del gip che aveva negato due volte l’arresto per difetto di gravi indizi di terrorismo.
Secondo gli inquirenti partenopei si tratta della prima sentenza del genere, che collega il proselitismo alla partecipazione all’Isis purché emerga la minaccia, e la possibilità, di realizzare le azioni violente predicate. È il frutto di una complessa indagine dei carabinieri del Ros di Napoli, agli ordini del tenente colonnello Gianluca Piasentin, iniziata nel 2014 sui contatti tra Khemiri e alcuni indagati per associazione terroristica a Bari riguardo alle attività del centro culturale islamico di Andria. Si è così scoperto che Khemiri viveva di espedienti e occupava alcuni locali del centro islamico di San Marcellino (Caserta). Aveva costituito un’organizzazione in grado di rinnovare illegalmente permessi di soggiorno a cittadini stranieri attraverso documenti e attestazioni fasulle, e contemporaneamente aveva messo in piedi una rete di contatti su Facebook e Twitter in cui veicolava messaggi di impronta antioccidentale ed antisionista. Procura e investigatori hanno messo sotto controllo telefoni e computer dell’uomo che in pubblico assumeva comportamenti moderati e pacifisti mentre invece sul web incitava al jihad contro i cristiani, esprimeva sostegno all’Isis e apprezzamento alla strategia del cosidetto Califfato islamico. Sul suo profilo, poi maldestramente chiuso quando ormai le prove erano state raccolte, Khemiri ha reiteratamente sostenuto l’azione di organizzazioni terroristiche come le Brigate Al Kassam, terroristi palestinesi che combattono Israele, ed ha inneggiato ad altre organizzazioni combattenti come Hamas, il gruppo Ansar Al Sharjah, operante in Libia, di Al Nusra Front, altra sigla terroristica che collabora con Daesh, operante nei territori siriani. Tutte organizzazioni della galassia salafita. Khemiri aveva anche commentato favorevolmente gli attentati di Parigi contro la redazione di Charlie Hebdo.
Il tunisino, secondo l’accusa, ha messo in rete il campionario delle truculenze dell’Isis, diventando amico via social di uno dei loro miliziani: le esecuzioni, gli sgozzamenti, le decapitazioni. Ed avrebbe ammesso di esserne partecipe, non militarmente, ma attraverso la propaganda: “Io non sono un operativo, perciò non contano i mujaheddin, tutto ciò che posso scrivere per loro è la preghiera e la gloria con la mia penna”.
Sulla condanna di Khemiri hanno pesato anche le dichiarazioni in aula di un pentito e dell’Imam di San Marcellino. Il primo lo ha riconosciuto nell’uomo che voleva acquistare da lui cinque kalashnikov. Il secondo ha riferito di una lettera ricevuta nel centro islamico, firmata da Khemiri e uscita chissà come dal carcere. Era ricca di messaggi dal contenuto ambiguo, con una invocazione ad Allah a dargli “la forza di finire quello che sto facendo” e un congedo a rivedersi “al Nilo del paradiso”, cioè nell’oltretomba. È citata nel provvedimento della corte d’Assise che ha trattenuto in carcere l’imputato, detenuto solo per le accuse di falsificazione di documenti. “Khemiri – si legge – può darsi alla fuga, ha ammesso di avere contatti in Francia” e siccome è stato arrestato per aver prodotto documenti falsi “si puo presumere che non sarebbe difficile per l’imputato” procurarsene altri e volatilizzarsi. Senza l’ordinanza contestuale alla condanna, presto sarebbe uscito dal carcere: per le accuse di terrorismo non c’era misura cautelare.