Gli ultimi sono rimasti barricati per ore nella curva del Krestovsky Stadium dopo il 2-1 di Argentina-Nigeria, mentre lo speaker li invitava sconsolato a lasciare l’impianto per la chiusura. E poi nella metro, mandata in tilt dai colpi dei tamburi, in strada fino a notte fonda, quando a San Pietroburgo il sole è sorto da un pezzo ed è già un altro giorno. Bandiere e magliette ovviamente, ma anche sciarpe, cappelli, parrucche, e canti a perdifiato, tutto Albiceleste: una festa folle, senza remore perché liberatoria, come la preghiera al cielo di Messi dopo il primo gol, o il doppio dito medio di Maradona. L’Argentina non ha ancora vinto il Mondiale (e chissà se potrà vincerlo giocando così), non ha fatto nulla. Ma ha comunque scritto un pezzo piccolo di storia, e quella che resterà in ogni caso come una delle notti Mondiali 2018: ha evitato l’eliminazione al primo turno (accaduta una sola volta in 50 anni), e soprattutto che finisse il sogno di Messi-Maradona, i due idoli di un solo popolo, così simili e così diversi, separati da quella coppa che uno ha conquistato e l’altro no, uniti come una parola sola nel coro che ripetono ossessivamente, come una litania.
Dalla mano al dito (anzi, le due dita medie) di Dio il passo è breve. Tutti chiedevano il miracolo a Messi, reincarnazione di Diego, e lui effettivamente il terzo giorno, anzi la terza partita, è resuscitato. Quando lo davano per morto, lo avevano già crocifisso per quel rigore sbagliato all’esordio con l’Islanda, quando persino i tifosi che lo venerano avevano quasi smesso di credere in lui, è apparso al mondo e al Mondiale. Ha segnato un gran gol, disputato una buona gara: senza nascondersi la testa fra le mani durante l’inno, come prima della disfatta contro la Croazia, ma affrontando le paure con il groppo in gola, buttato giù con un paio delle sue giocate. L’immagine di lui, inginocchiato davanti ai suoi tifosi con le mani al cielo, poteva essere la fotografia di Nigeria-Argentina. Ma poi ci si è messa la pessima forma della sua nazionale, qualche errore dei compagni, un pizzico di sfortuna, un rigore molto generoso fischiato dall’arbitro e misteriosamente confermato dal Var, che dopo un buon inizio sta cominciando a far danni pure al Mondiale. Insomma, il solito destino di Messi e della sua Argentina, che giustamente Maradona ha mandato a quel paese al gol quasi a tempo scaduto di Marcos Rojo. Il più improbabile degli uomini della provvidenza, difensore dai piedi e dallo sguardo cattivo, che in teoria alla vigilia neanche avrebbe dovuto giocare e chissà per quale caso si è ritrovato in piena area avversaria nel momento decisivo.
L’Argentina passa agli ottavi di finale ed evita di diventare la prima, grande sorpresa del torneo. Troverà la Francia, in un’altra partita da dentro o fuori con tutta la pressione addosso. Ma per il momento Messi può ancora vincere il Mondiale, essere come Maradona, quello che tutti gli hanno sempre chiesto, previsto, quasi imposto, fin da quando era un bambino e tutto gli riusciva facile, e ha finito per essere quasi una maledizione più che una profezia. Lui piange, abbraccia i compagni, accetta gli applausi del suo pubblico, riabilita anche Sampaoli, andandolo a cercare e a stringergli la mano, dopo che negli ultimi giorni lo aveva esautorato insieme a Mascherano e gli altri senatori del gruppo (“Il suo gesto mi ha reso orgoglioso, sa quanta passione ci metto”, ha detto il povero ct). E dopo aver segnato parla pure, ponendo fine a giorni di silenzio: “Abbiamo provato nervosismo, ansia, paura, sofferto da matti”, ammette. “Vincere così è meraviglioso: sapevamo di aver avuto un’occasione in più dal cielo, dopo aver sbagliato le prime due partite”. È la fede di un popolo nel dio del pallone. Che per loro è Messi, o uno ancora più grande a cui pure lui ieri ha dovuto rimettere il suo destino.
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