Il governatore del Lazio, appoggiato ufficialmente da Andrea Orlando, avrebbe dalla sua anche Gentiloni, Minniti e Veltroni. Intanto Carlo Calenda lancia il manifesto del Fronte Repubblicano attraverso le colonne de Il Foglio: "Riorganizzare il campo dei progressisti". E Renzi per il momento resta nel mezzo. Vendola: "Il partito ha rotto con i propri riferimenti. In tanti mi chiedono di tornare"
Nicola Zingaretti da una parte, Carlo Calenda dall’altra. E Matteo Renzi nel mezzo, al momento senza una posizione precisa. Il Partito Democratico inizia il percorso che lo porterà a eleggere un nuovo segretario (Matteo Orfini ha convocato l’assemblea il 7 luglio) e si delineano le candidature. Il governatore della Regione Lazio chiede il “congresso subito” e si dice pronto a correre, appoggiato da Paolo Gentiloni, che viene però indicato dall’ex ministro del Mise come un “punto di riferimento”, Walter Veltroni, Marco Minniti e in maniera chiara da Andrea Orlando. Il leader della minoranza dem lo dice chiaramente a Repubblica: “Il candidato segretario più forte per ripartire è lui”.
Zingaretti, forte del successo del suo “modello” sia alle Regionali nel Lazio che nelle recenti amministrative non solo nella sua regione, guarda a sinistra, ai sindaci e alla rete dei Comuni messa in piedi da Federico Pizzarotti. Sull’altro fronte per superare l’era renziana, con un manifesto pubblicato su Il Foglio, l’ex ministro Calenda lancia il Fronte Repubblicano, “un’alleanza repubblicana che vada oltre gli attuali partiti e aggreghi i mondi della rappresentanza economica, sociale, della cultura, del terzo settore, delle professioni, dell’impegno civile“. Serve, spiega, “riorganizzare il campo dei progressisti per far fronte alla minaccia mortale” da Lega e M5s, quello che Calenda chiama “l’incrocio tra sovranismo e fuga dalla realtà“. Per farlo, aggiunge, “è necessario definire un manifesto di valori e di proposte e rafforzare la rappresentanza di parti della società che non possono essere riassunti in una singola base di classe”. Un campo largo, oltre il Pd.
Il tutto, spiega Calenda in cinque punti, per “tenere in sicurezza l’Italia”, “proteggere gli sconfitti” rafforzando “gli strumenti come il reddito di inclusione, nuovi ammortizzatori sociali, le politiche attive e l’apparato di gestione delle crisi aziendali in particolare quanto causate dalla concorrenza sleale di Paesi che usano fondi europei e i vantaggi derivanti da un diverso grado di sviluppo per sottrarci posti di lavoro”, scrive l’ex ministro. “Investire nelle trasformazioni, per allargare la base dei vincenti, su infrastrutture materiali e immateriali (università, scuola e ricerca); promuovere l’interesse nazionale in UE e nel mondo – aggiunge Calenda – Riconoscendo che non esistono le condizioni storiche oggi per superare l’idea di nazione e un piano shock contro analfabetismo funzionale“.
Un piano, quello dell’ex ministro, criticato lunedì da Orlando che lo aveva bollato come “una cosa che c’è già stata, Scelta civica“, il partito dell’ex premier Monti con cui Calenda si era candidato nel 2013. Ora, intervistato dal quotidiano romano, l’ex Guardasigilli dice “l’ansia di creare altri contenitori è la spia di una difficoltà di trovare altri contenuti. Non è escluso che questo possa essere l’esito, ovvero ridiscutere il Pd, ma prima ci vuole una costituente”. A suo avviso, “nessuno da solo può portare il Pd fuori dalle secche” perché “non è una crisi di leadership, ma della funzione e del ruolo del Pd. E quindi c’è il problema di ridefinirsi e di riposizionarsi“.
La drammaticità della condizione del centrosinistra, afferma, “ce l’ho chiara dall’indomani delle elezioni del 4 marzo e dal referendum costituzionale. Già quella sconfitta ci segnalava che avevamo perso definitivamente il popolo. Questa tornata dei ballottaggi aggiunge fatti nuovi. Quando il no al referendum ha vinto nelle periferie con il 90%, non puoi pensare né che sia tutta colpa di Renzi, né che fossero tutti fan del bicameralismo. C’era una rottura che si è continuato a rimuovere”.
Intervistato dall’edizione barese di Repubblica, Nichi Vendola, nel commentare le amministrative pugliesi “del paradosso” perché “vince il centrosinistra, ma perde il Pd”, spiega che i dem devono “guardarsi allo specchio, vedere i propri lineamenti sociali e culturali, domandarsi il perché del rancore che raccoglie negli strati più popolari e fra i giovani”. Per l’ex presidente della Puglia, il Pd “ha rotto con i propri riferimenti” dal mondo del lavoro a quello della scuola fino alle periferie pensando che “la modernità fosse fare cose di destra”. E mettendo un punto al dialogo con il M5s (“sono alleati con un partito xenofobo”), ammette che “tantissimi pugliesi, ogni giorno, mi chiedono di tornare. Una sollecitazione affettuosa che proviene dai mondi più disparati e che mi commuove e mi turba”. E alla domanda sulla possibilità di escludere che possa essere della partita, almeno regionale, dice: “È presto per rispondere”.