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Consiglio Ue sui migranti, l’Italia minaccia il veto sui 3 miliardi alla Turchia: la mossa per ottenere fondi per Libia e Sahel

E' una delle carte di Roma sul tavolo di Bruxelles. Se ci arrivasse lo stop ai fondi per il biennio 2018-2019, Ankara potrebbe lasciar andare parte dei 3,5 milioni di profughi che ospita sul suo territorio. Si intensificherebbero così i movimenti lungo la rotta balcanica e i Paesi dell'ex Jugoslavia chiuderebbero uno dopo l'altro le frontiere

Un veto italiano sui 3 miliardi di euro che l’Europa darà nei prossimi due anni alla Turchia di Recep Tayyip Erdogan per gestire i migranti e non farli arrivare in Ue. L’ipotesi potrebbe concretizzarsi durante il Consiglio Ue. Più presumibilmente, però, si tratta solo di una partita a scacchi giocata dal governo italiano per guadagnare terreno altrove e usare i soldi in fondi più importanti per l’Italia.

L’escalation diplomatica è finalizzata, dal lato italiano, ad ottenere 1,2 miliardi di euro per finanziare il Trust Fund Europa-Africa (Eutf): è il fondo che copre i progetti europei per bloccare il flusso migratorio dai Paesi africani. Non solo: il primo ministro Giuseppe Conte vorrebbe anche un fondo di emergenza per la Libia, per quanto ancora non sia chiaro quale sarebbe il governo in grado di gestire questi aiuti.

La minaccia di far saltare il banco con la Turchia, dove secondo l’Unhcr ci sono ancora 3,5 milioni di siriani, disegna diversi scenari possibili. Il più immediato è una possibile crescita esponenziale degli sbarchi, che nel 2015, prima dell’accordo, sono stati 850 mila dalla Turchia alla Grecia. Nel 2018, finora, sono stati poco più di 12.500, mentre i centri greci gestiscono 58.100 persone.

Questa situazione potrebbe peggiorare le condizioni della rotta balcanica, che non si è mai completamente esaurita. A gennaio 2017 Save the Children sosteneva che ci fossero circa un centinaio di arrivi al giorno, in media, in Serbia, uno dei Paesi alla fine della rotta verso l‘Ue. Lo scorso aprile, invece, la Bosnia riportava l’ingresso di 1.800 migranti in quattro mesi, il doppio del dato 2017.

Se i Paesi lungo la rotta restano in situazioni difficili, Germania e Paesi dell’area di Visegrad (Repubblica Ceca, Polonia, Ungheria e Slovacchia) hanno certamente avuto un vantaggio. Per loro infatti non ci sono stati più gli ingressi massicci del 2015, dal momento in cui la Turchia ha cominciato a tenersi i migranti.

“Alla fine non cambierà nulla. L’Unione europea continuerà a esternalizzare la gestione dei flussi come ha sempre fatto negli ultimi anni”. Il trattato Europa-Turchia sopravviverà: ne è convinto Dimitris Christopoulos, presidente di Fidh, la Federazione internazionale dei diritti dell’uomo, ombrello internazionale che racchiude ong, associazioni di avvocati che si occupano di difesa dei diritti umani e gruppi di attivisti politici a rischio censura.

Il fondo europeo per l’Africa (Eutf) e quello per la Turchia competono sin dalla loro nascita: l’Eutf è stato annunciato alla fine del primo summit di La Valletta del novembre 2015 a cui hanno partecipato anche rappresentanti dei Paesi di origine dei migranti dell’Africa subsahariana. Ma la tre giorni di vertice s’era chiusa in modo inaspettato con l’annuncio di un fondo con in pancia il doppio degli investimenti per bloccare la rotta turco-greca. Il modello è sempre lo stesso: finanziare strutture nei Paesi di transito o di origine per evitare che i flussi arrivino in Europa. Un modello che, per quanto discusso sul piano della violazione dei diritti umani, sembra ormai essere condiviso dai Paesi europei.

Il 7 giugno la Turchia ha unilateralmente sospeso l’accordo di riammissione tra Grecia e Turchia contenuto nell’accordo Europa-Turchia attivo dal marzo 2016. Sulla carta, l’accordo prevede quello che è definito “schema 1:1”: per ogni irregolare rispedito in Turchia, un siriano titolare di forme di protezione umanitaria viene ricollocato in un Paese dell’Unione europea. “Non funziona più questo accordo. Eppure la Turchia sa che il suo annuncio può destabilizzare l’Europa. È una carta giocata sul piano politico, più che sul piano reale. È un messaggio”, argomenta Christopoulos.

A marzo, la Commissione europea aveva già previsto una seconda tranche da 3 miliardi di euro per il progetto Facility for Refugees in Turkey (550 milioni di provenienza dal budget comunitario, 500 già disponibili e 50 dal Fondo per l’aiuto umanitario), cioè la creazione delle strutture di strutture d’accoglienza in Turchia. In questa guerra diplomatica, l’annuncio di Ankara è finalizzato a destabilizzare gli europei per garantirsi i suoi tre miliardi di aiuti, mentre la minaccia italiana ha lo scopo di garantirsi il supporto per l’Eutf e rinsaldare le nuove alleanze per la discussione della riforma del regolamento Dublino.

Che l’annuncio turco non provochi cambiamenti fattuali lo dicono i numeri. Tra il 2017 ed il 2018, riporta il Commissario europeo all’immigrazione Dimitris Avramopoulos l’8 giugno, “sono in tutto 25 i migranti rimpatriati dalla Grecia alla Turchia”. “C’è una differenza sostanziale tra l’accordo e il protocollo di riammissione: il primo vale tre miliardi, che non sono pochi soldi per la Turchia”, aggiunge il presidente di Fidh.

“Bisogna demistificare l’apporto di questo accordo – prosegue Christomopoulos – due terzi degli arrivi in Grecia sono già stati fermati nel momento in cui è stato sigillata la rotta balcanica, cioè quando è stato chiuso il confine Grecia-Macedonia. I migranti hanno smesso di arrivare perché nessuno vuole essere costretto a rimanere in Grecia”.

La partita sulla riforma del Regolamento di Dublino è ancora più delicata. Secondo Christopoulos, gli accordi con i Paesi di transito e con i Paesi d’origine sono strumentalizzati dai governi europei “per far credere agli elettori che grazie a loro non arriveranno più richiedenti asilo in Europa”. Una falsa credenza facile da vendere, vista la decrescita degli sbarchi, che per Christopoulos sono provocati in realtà da altri fattori. Il presidente di Fidh spiega che i principali beneficiari dello stop dei flussi lungo la rotta balcanica, Paesi come Germania, Austria e l’area di Visegrad non possono permettersi nuovi arrivi importanti lungo quel corridoio per motivi politici.

Allora minacciare di rompere l’accordo con la Turchia significa da un lato mantenere compatto il fronte del no alla riforma del regolamento Dublino IV, lo strumento fondamentale per la gestione dei richiedenti asilo all’interno dell’Europa, dove l’alleato più forte di Matteo Salvini è l’ungherese Viktor Orban. E significa, dall’altro, dare un argomento a Paesi come la Germania per cambiare fronte e allearsi con i sovranisti con cui il ministro dell’Interno tedesco Seehofer pare avere molte idee in comune.

Il primo luglio, inoltre, la presidenza europea passerà all’Austria, uno dei sette Paesi che ha votato contro la riforma del sistema Dublino è che più si trova vicino alle posizioni ungheresi. Spetterà proprio all’Austria lavorare sulla materia. “È paradossale che l’Italia abbia spaccato il fronte del Mediterraneo: la discussione sul nuovo sistema Dublino sta andando contro gli interessi dei Paesi dell’area”, conclude Christomopoulos. Ma ormai la linea dell’Italia sembra segnata: blocco navale e respingimenti in mare, anche se questo comporterà probabili sanzioni della Corte di giustizia europea. Lo dice la storia: è successo con Roberto Maroni al Viminale, nel 2008. Poco importa: questa è la posizione di Budapest e l’Italia s’allinea.