Cerchi lavoro? Trova un posto che ti garba e spedisci il tuo curriculum vitae. Spera di arrivare al colloquio. Sostieni il colloquio e spera, a questo punto, di essere assunto. Grazie al tuo cv, certo, ma anche grazie al tuo modo di affrontare il colloquio. Funziona così in tutto il mondo, in tutti i settori. E funziona idealmente così anche in Italia, almeno in tutti i settori privati.
Nei settori pubblici si deve vincere un concorso, ma il lavoratore abilitato ha la possibilità di dire la sua rispetto a dove vorrebbe lavorare. E per tre anni è stato così anche per la Scuola pubblica italiana, grazie alla riforma 107, che aveva inventato la “chiamata per competenze“, quella che la peggior stampa ha rinominato “chiamata diretta“, ma che diretta (sullo stile inglese, per capirci, della scelta diretta del preside) non era affatto.
Come funzionava in realtà? Ogni istituto, tramite il suo comitato di valutazione, stabiliva dei criteri (o qualità) necessari per i nuovi docenti. Si pubblicavano i criteri e gli aspiranti docenti di quelle materie che erano venute a mancare alla data scuola, dovevano spedire il loro cv alla preside, mettendo in risalto quanti e quali criteri coprissero.
La preside, insieme ai suoi collaboratori (o più spesso: demandando tutto all’ufficio personale, visto che la procedura si svolgeva di norma in agosto, durante le ferie del dirigente scolastico) scrutinavano quanti di quei criteri fossero offerti dai cv dei vari candidati. Quindi si faceva una prima selezione e infine un colloquio, di solito telefonico, con i due o tre professori considerati migliori. Esempio: fate conto si trattasse di un liceo dove s’era deciso di attivare un corso Clil (l’insegnamento di una materia non linguistica in lingua straniera: poniamo la Storia americana in inglese), ecco che una competenza linguistica in inglese (o altra lingua europea: il Clil non è solo per l’inglese) superiore al B2, o meglio ancora C1 o C2, sarebbe stato un ottimo biglietto da visita per essere assunti.
La chiamata per competenze consentiva, insomma, da un lato al docente di candidarsi nei singoli istituti che più lo interessavano. Dall’altro dava la possibilità al preside, coadiuvato dal Comitato di valutazione (fatto da docenti di quell’istituto) e infine dal Collegio dei docenti (il Parlamento di ogni istituto) di selezionare i docenti più utili per quella specifica scuola. Non semplicemente “un prof di Storia e Filosofia” con elevato punteggio d’anzianità, ma “quel prof di Storia e Filosofia in grado di insegnare Storia americana in lingua inglese“.
Inoltre, la chiamata per competenze dava al singolo docente un micro potere contrattuale: uno stesso insegnante, se dotato di un buon cv, poteva facilmente vedersi offrire una cattedra da parte di più istituti. A quel punto, stava solo a lui scegliere dove andare a lavorare, e magari poteva decidere sulla base di fattori meno rilevanti, ma pur sempre rilevanti: quale istituto fa la settimana corta, età media dei colleghi, media degli studenti per classe, quante Lim e quanti computer ci sono, se c’è copertura wifi nell’isituto, eccetera. L’aspirante prof senza particolari qualità, avrebbe comunque trovato un posto nei licei non scelti dai più bravi.
Questo piccolo frammento di civiltà meritocratica era stato introdotto dalla riforma della scuola del 2015, la 107. Una riforma votata dal Parlamento della Repubblica. Da martedì scorso, invece, con un semplice tratto di penna siglato dal neo ministro dell’Istruzione, Marco Bussetti, in accordo coi principali sindacati della Scuola (Flc, Cgil, Uil, Cisl, Gilda), la chiamata per competenze è stata eliminata. Può un accordo sindacale cancellare una legge del Parlamento? Materia per ricorsi in tribunale. Si è intanto tornati all’antico: il docente indica una sola scuola di un distretto geografico (chiamato ambito scolastico) dove vorrebbe insegnare e l’ufficio scolastico provinciale (il vecchio provveditorato) assegna i docenti non guardando al loro cv e alle loro qualità, ma solo al loro punteggio di anzianità.
Quindi i prof più vecchi sono i primi a essere collocati nella scuola che ha una cattedra per loro, a prescindere da tutto il resto (fatti salvi i diritti acquisti tipo Legge 104). Poi è l’ufficio scolastico che assegna, a scalare, i prof più giovani e quindi con minor punteggio anzianità alle altre scuole seguendo un criterio di vicinanza con il primo istituto indicato.
A mio modo di vedere, questo è l’ennesimo svilimento della professione insegnante. Il Miur appiattisce tutti i docenti verso il basso e pare dica loro: a noi non interessa cosa sapete fare. Non vogliamo leggere il vostro cv. Non vogliamo saper nulla delle vostre esperienze professionali e di vita, dei vostri master, delle vostre doppie lauree, o dottorati o altre specializzazioni. Per il ministero voi docenti siete tutti ugualmente capaci di poter fare solo una cosa: insegnare le vostre materie. Siete dei senza-volto, e l’unica carriera che vi è concessa, è di invecchiare, a leggere, come diceva Venditti già nel 1975, “sempre la stessa storia / Sullo stesso libro, nello stesso modo / Con le stesse parole da quarant’anni di onesta professione”.
Capisco che i sindacati della scuola (e i docenti meno egregi) festeggino: per loro ogni novità è minaccia, e la chiamata per competenze toglieva loro uno strumento di controllo importante. Non capisco invece come mai un ministro sulla carta niente male come Marco Bussetti, che ha già confermato di voler mantenere l’alternanza scuola-lavoro, abbia voluto cedere a una richiesta tanto retriva e anti-meritocratica. Dia retta, ministro: ci ripensi e ci restituisca quel grammo di meritocrazia che la Scuola si era guadagnata.