Filologa e latinista dell’Università Federico II di Napoli, è un romanzo storico in cui ha voluto raccontare a modo suo il protagonista Cicerone e la sua amata figlia Tullia, la Tulliola di tante sue lettere. Si intitola Tenebre, è uscito da poco per SEM. Il Cicerone più intimo e familiare diventa un personaggio letterario svelato in tutta la sua verità
Secondo Massimo Fini Marco Tullio Cicerone è tutto chiacchiere e distintivo. In una biografia dedicata a Catilina lo descrive come una specie di borioso trombone. Del resto, il grande oratore era già stato screditato senza pietà dagli storici Drumann e Mommsen. Quest’ultimo nella “Storia di Roma antica” ne diede un giudizio politico a dir poco massacrante: «Come uomo di Stato, senza perspicacia, senza opinioni e senza fini, egli ha successivamente figurato come democratico, come aristocratico e come strumento dei monarchi, e non è mai stato altro che un egoista di vista corta».
Ma non mancano le voci contrarie. Lo studioso francese Pierre Grimal, nella sua biografia ciceroniana, ci ha restituito un Cicerone straordinariamente affascinante, un protagonista della vita politica del suo tempo e dello sviluppo della civiltà occidentale. Baluardo e difensore dell’antica Res Publica, Cicerone mediò il passaggio all’Impero, svolgendo un ruolo importante in una transizione che alla fine lo travolse. Ma il suo concetto di humanitas resta uno dei più significativi apporti della romanità alla cultura universale di tutti i tempi. L’esordio narrativo di Antonella Prenner, filologa e latinista dell’Università Federico II di Napoli, è un romanzo storico in cui ha voluto raccontare a modo suo il protagonista Cicerone e la sua amata figlia Tullia, la Tulliola di tante sue lettere. Si intitola Tenebre, è uscito da poco per SEM. Il Cicerone più intimo e familiare diventa un personaggio letterario svelato in tutta la sua verità, storica ad eccezione di alcuni espedienti narrativi che sono il motore della vicenda. L’idea di partenza suona molto bene: l’ombra di Cesare appare in sogno a Cicerone il giorno dopo essere stato pugnalato 23 volte e gli comunica la data esatta della sua morte. Comincia il conto alla rovescia della vita che finisce e che porterà Cicerone tragicamente alla morte.
Come avviene l’incontro con “il suo amico” Cicerone?
L’ho incontrato per la prima volta quando avevo otto anni, ero in terza elementare. La maestra ci accompagnò a visitare il monumento che qui a Formia tutti chiamiamo “Tomba di Cicerone”, ci sentivamo eccitati, per l’occasione eravamo andati a scuola senza grembiule e senza fiocco! Tra gli ulivi e i cipressi, ci raccontò una storia grandiosa e triste, e ricordo come se le sentissi adesso, le parole della maestra: “Morì proprio in questi luoghi il 7 dicembre del 43 avanti Cristo, ucciso dai sicari di Antonio”. Non capivo benissimo che cosa significasse avanti Cristo, e anche Antonio, e i sicari…, forse l’aveva spiegato e non ero stata attenta! Eppure, quelle parole si sono impresse a fuoco e non le ho più dimenticate.
Lei abita lì vicino?
Si, la maestra ci ha indicato un rudere più in alto sulla collina, proprio di fronte, si distingueva a stento tra le rocce, e ci disse che era forse la tomba della figlia Tulliola, morta prima di lui, e che Cicerone ne aveva sofferto moltissimo. Io abito proprio lì vicino e da quel giorno mi sono sentita all’improvviso parte di una storia importante, come se d’un tratto e quasi per istinto avessi compreso il senso del passato.
Cicerone come vicino di casa.
Infatti, ogni giorno passo davanti alla sua “tomba”, la vedo dalle finestre, come vedo la costa da cui ha tentato di salpare quella mattina d’inverno per mettersi in salvo, ma c’era vento forte… Per me è una specie di vicino di casa con qualche millennio in più, è una presenza troppo familiare per essere solo oggetto di studio scientifico. Se doveva diventare qualcosa, non poteva essere che un personaggio narrativo.
Nasce così l’idea del romanzo?
Di nuovo, a distanza di molti anni dalla gita con la maestra, tra quegli stessi cipressi e quegli stessi ulivi. A Formia si teneva una bella manifestazione, le “Notti di Cicerone”, e gli organizzatori mi avevano invitata a tenere una conferenza nell’area della tomba. Era ormai sera, parlavo da un piccolo palco e avevo davanti un pubblico molto numeroso. Ricordo che stavo raccontando proprio i momenti drammatici della morte come li tramanda Plutarco, un testo meraviglioso perché è davvero una fotografia dell’ultimo attimo di vita: Cicerone con i capelli scomposti, con una mano sulla guancia sinistra, con occhi sconvolti da mille pensieri che neppure i sicari più abituati alla morte potevano sostenere – scrive proprio così Plutarco! Stavo descrivendo questa scena, quando ho alzato lo sguardo alla sommità del mausoleo e ho visto la luna piena che sorgeva dietro i cipressi in direzione della tomba della figlia Tullia. Ha presente quando ti vengono i brividi e ti si ferma la voce in gola? Ecco, in quel momento mi sono sentita così. Il mio vicino di casa e la sua Tullia tanto amata, carichi di secoli, li dovevo raccontare.
Tenebre racconta un periodo cruciale della storia romana attraverso una narrazione che si dipana da un abile stratagemma rivelato già dalle prime pagine. Com’è stato possibile creare tensione narrativa su una storia vera di cui si conoscono gli esiti?
In due modi. In primo luogo con l’espediente narrativo del “conto alla rovescia”. Gli stessi capitoli sono numerati al contrario, tranne il primo e l’ultimo che invece riportano due date significative nella storia di Roma: la notte successiva alle Idi di marzo del 44 a.C., segnate dall’assassinio di Giulio Cesare, e il 6 dicembre del 43 a.C., il giorno che ha preceduto la morte di Cicerone, anche in quel caso una morte violenta. Nella notte delle Idi di marzo, quindi proprio all’inizio del romanzo, l’ombra di Cesare rivela a Cicerone quando, dove e come morirà.
Quindi?
Questa profezia conferisce al protagonista una dimensione surreale, sovrumana, direi ultraumana, ma al contempo lo lascia completamente immerso nella Storia senza possibilità di sottrarsi agli eventi che segnano la crisi inesorabile della libertas repubblicana e scandiscono giorno dopo giorno anche la sua corsa verso il compiersi dei fati, a ogni pagina più vicini. Cicerone decide di essere utile alla sua Patria fino all’ultimo giorno, di fare tutto il possibile per la salvezza delle istituzioni, nonostante l’incombere del destino. Anzi, è reso addirittura più forte dalla sua penosa e segreta consapevolezza, e così racconta il susseguirsi convulso e confuso degli eventi in prima persona e al presente – ed è questo l’altro espediente narrativo -, rivolgendosi a sua figlia Tullia, morta da poco. Così Cicerone è voce narrante che racconta una storia, la Storia, nel momento stesso in cui si compie, liberandola dalla fissità e dall’immutabilità di tutto ciò già che è passato, che è già accaduto. Anche per il lettore che ne conosce gli esiti, il racconto in diretta produce attesa del futuro.
Colpisce il forte senso delle istituzioni e il grande amore per la patria. Come ha sviluppato questo punto fondamentale e così distante dal mondo di oggi?
Non so se sia davvero così distante… E’ che i grandi cambiamenti politici, con tutte le implicazioni economiche, culturali e sociali, sono faticosi, non immediatamente comprensibili nella loro portata più profonda e a lungo termine. E’ come l’impeto di un fiume che a un certo punto si ingorga in rapide e cascate, per poi riprendere il suo corso e alimentare terre e popoli che non sono più uguali a prima. Cicerone visse una fase di cambiamento cruciale e rimase ostinatamente legato a un’immagine di mondo che si stava dissolvendo. Ma era un politico, insieme a Giulio Cesare forse il più importante e influente del suo tempo. Non era un cittadino qualunque cui poteva essere consentito anche un certo distacco.
L’ultima battaglia di Cicerone.
La sua carriera era stata brillante, senza vantare origini aristocratiche aveva ricoperto il consolato, la carica più alta, era stato acclamato Padre della Patria, aveva consacrato alla salvaguardia delle prerogative senatoriali tutte la sua intelligenza giuridica, diplomatica, filosofica, oratoria, e da quelle istituzioni aveva ricevuto ogni riconoscimento, il massimo della gloria. Questo amore per Roma e per la Res publica nel romanzo è un vero e proprio soffio vitale, tanto più potente quanto più si avvicina il giorno della fine, e induce Cicerone a combattere la sua ultima battaglia pur sapendo che non vi sono speranze: una battaglia fatta di discorsi violentissimi contro il console Marco Antonio, nel quale vede il nemico più funesto della libertà e delle istituzioni. Quei discorsi sono conosciuti come “Filippiche”, e qualche decennio dopo un retore, Quintiliano, dirà che in particolare con la Seconda Filippica Cicerone firmò la sua condanna a morte.
Il senso della patria era più alto del senso della famiglia. Nel suo romanzo, però, Cicerone sceglie di raccontare il suo segreto alla figlia scomparsa prematuramente.
Da molte lettere che scrive al suo amico Attico sappiamo quanto intensamente Cicerone amasse sua figlia Tullia e quanto inconsolabile dolore gli avesse procurato la sua morte prematura. Fu l’unica donna che davvero lo gratificò negli affetti, visto che con entrambe le mogli non fu molto fortunato. Neanche Tullia fu fortunata con gli uomini, si sposò tre volte e il suo ultimo marito, Dolabella, era particolarmente inviso a Cicerone, che tuttavia non riuscì a impedire le nozze: l’unione coniugale durò poco e i due divorziarono mentre la donna portava in grembo un bambino, e morì nella casa del padre, a Tuscolo, proprio per le conseguenze di quel parto. Neppure il bambino visse a lungo.
Tullia però è una presenza muta.
Nel romanzo Tullia non parla, non risponde mai al racconto di suo padre, è la compagna muta di una lunga agonia che gli toglie i giorni uno alla volta: è uno spettro, ma al contempo un personaggio necessario e potente, che nel corso della narrazione diventa visibile, tangibile. La necessità di Tullia quale destinataria delle parole di Cicerone poggia anche su una ragione stilistica: la sua lingua doveva essere per forza di cose “alta”, e lo è, anche per una patina di latinità che ho intenzionalmente lasciato al fluire della narrazione, come a voler far arrivare un’eco di secoli lontani. Ma è una lingua semplice, come quella di un padre che alla fine della vita decide di raccontarsi a sua figlia, dunque una lingua densa di affetti e di memorie, che esprime angoscia e sgomento nell’attesa dei fati, vigorosa e incalzante nella vana speranza di vincere l’ultima battaglia e un attimo dopo stanca e triste, pervasa dal gelo del destino che incombe. Volevo che fosse una lingua al contempo vera e moderna, specchio di una personalità complessa, ma anche vicina alla sensibilità del lettore del nostro tempo: la lingua di uno dei personaggi più grandi della Storia e la lingua di un uomo che è padre.
Come è avvenuta la trasformazione di Cicerone da personaggio storico a personaggio letterario?
Di Cicerone e del suo tempo sappiamo molto da fonti di vario genere, coeve e posteriori, greche e latine, e in più, diversamente da altri personaggi del passato, gran parte delle informazioni le apprendiamo dalle sue stesse parole – dalle Lettere per esempio, dove racconta situazioni anche molto personali. A questa messe ho attinto a piene mani e si potrebbe dire che, in un certo senso, il mio è un libro pieno di libri. Tuttavia, il passo successivo era dargli un’anima nuova e nello stesso tempo vera, come un personaggio immortalato in una statua di marmo che a un certo punto si colora, si riscalda, scende dal piedistallo e ci viene incontro: ci guarda, ci rivolge la parola, ci prende sottobraccio e ci invita a fare un pezzo di strada insieme a lui attraverso un mondo che è suo, ma che può diventare anche un po’ nostro. Spero che la metamorfosi si sia compiuta!