Diciotto anni da quando è iniziato il traffico di rifiuti. Otto anni dagli avvisi di garanzia. Quattro anni dalla prima udienza. Ma il giudice monocratico di Vibo Valentia ha rigettato la richiesta di dichiarare la prescrizione avanzata dagli avvocati. I reati di disastro ambientale e associazione a delinquere finalizzata al traffico di rifiuti, infatti, consentono al pm Caterina Berlingeri di proseguire l’azione penale. Va avanti, quindi, il processo “Poison” nato da un’inchiesta della Guardia di finanza che, a San Calogero, aveva scoperto una discarica abusiva di 135mila tonnellate di rifiuti tossici. Rifiuti che adesso sono abbandonati nello stesso posto dove, il 2 giugno scorso, è stato ucciso a fucilate il sindacalista dell’Usb Soumaila Sacko, il bracciante maliano che viveva nella tendopoli di San Ferdinando e che proprio in quel terreno sequestrato, abbandonato e mai bonificato aveva trovato alcune lamiere di alluminio con le quali costruire una baracca. Un omicidio che ha spalancato le porte del carcere per Antonio Pontoriero, nipote di uno degli indagati per traffico di rifiuti per i quali non era stato chiesto il rinvio a giudizio nel processo “Poison”.
Due storie distinte che si sono consumate nello stesso contesto. Stando all’inchiesta delle Fiamme gialle l’ex fabbrica di mattoni “Fornace tranquilla” era diventata il posto dove finivano i rifiuti industriali e tossici delle centrali Enel di Brindisi, Priolo Gargallo e Termini Imerese. “Scaricavano materiale, simile all’argilla, alcune volte più secca e alcune volte più fangosa. Una piccola parte del materiale trasportato dai camion veniva mescolato con l’argilla della cava, mentre la maggior parte veniva scaricato, entrando dal cancello carrabile, nella parte destra del capannone, dove ci sono gli escavatori in disuso”.
“Il più grande deposito abusivo di rifiuti cancerogeni”
Nelle carte dell’inchiesta c’è pure il racconto di un testimone oculare. Dichiarazioni raccapriccianti diventate ancora più inquietanti per gli investigatori quando hanno scoperto che i rifiuti occultati, dal 2000 al 2007, sono 135mila tonnellate, corrispondenti ad oltre 100mila metri cubi di materiale. I camion partivano dalla centrale Enel di Brindisi “Federico II”. Bastava modificare i codici Cer, che servivano a identificare il tipo di rifiuti, per far arrivare in Calabria materiali tossici che richiedevano un trattamento particolare piuttosto che essere semplicemente interrati. All’epoca del sequestro e degli avvisi di garanzia, l’allora procuratore di Vibo, Mario Spagnuolo (oggi capo della Procura di Cosenza), lo aveva definito “il più grande deposito abusivo di rifiuti cancerogeni”.
Uno dei testimoni aveva raccontato a un capitano della Finanza di aver visto “entrare camion del tipo di quelli utilizzati per il trasporto di rifiuti con sponde alte e telone di copertura”. Il rifiuto scaricato “era di colore scuro, ma so con certezza che tale materiale non veniva utilizzato per la costruzione dei laterizi in quanto non era buono perché i mattoni durante la cottura nei forni si deformavano e quindi il materiale veniva accumulato alle spalle della Fornace”. Mattoni difettosi, quindi, perché prodotti con una sostanza tossica che, una volta inserita nella fornace, “veniva ricoperta con dell’argilla presente sul posto”.
Messi a rischio l’ambiente e l’incolumità delle persone
“Ufficialmente – scrive la Guardia di finanza – si dovevano recuperare ingenti quantità di rifiuti, mediante la produzione di laterizi per l’edilizia (in specie, mattoni) ma in realtà avveniva soltanto lo stoccaggio di rifiuti, anche pericolosi, mediante occultamento degli stessi nel suolo”. Si trattava di un business che, leggendo le carte dell’inchiesta, faceva guadagnare tutti: produttori, trasportatori e “smaltitori”. A spese dei vibonesi e dei residenti di San Calogero il cui Comune si è costituito parte civile assieme a Legambiente e Wwf. L’affare era milionario. La ricostruzione della Finanza è impietosa. Secondo gli inquirenti, infatti, sarebbe stata proprio l’Enel a lucrare maggiormente attraverso un’imponente contaminazione della zona dove sorge la cava il cui titolare, Giuseppe Romeo (imputato), era stato arrestato nel novembre 2009. Con l’accumulo e lo sversamento dei rifiuti tossici della centrale, secondo la Procura di Vibo, gli indagati avrebbero messo a rischio l’ambiente con conseguenze tali da provocare un effettivo pericolo per l’incolumità fisica di un numero indeterminato di persone.
Per interrare i rifiuti tossici a San Calogero, infatti, l’Enel – secondo la procura – ha speso 4 milioni e 284mila euro. Se li avesse smaltiti correttamente avrebbe dovuto sostenere un costo di 22 milioni e 680mila euro. Il conto è bello e fatto: un risparmio di 18 milioni 396mila euro. La stessa cifra probabilmente oggi non sarebbe sufficiente per bonificare l’area dove si è consumato un disastro ambientale “di eccezionale gravità non necessariamente irreversibile, ma certamente non riparabile con le normali opere di bonifica”. Nelle carte della Procura era finita anche una relazione del consulente dell’Arpacal Luigi Dattola che, interpellato dai pm circa i reali rischi per l’area, ha certificato “la pericolosità dei rifiuti stoccati nel sito della ‘Fornace Tranquilla’”.
Processo rinviato al 7 febbraio 2019
Gli esperti, infatti, hanno rinvenuto una grossa quantità di stagno, nichel e vanadio, combinati con altri elementi danno origine a composti altamente tossici e cancerogeni. Il vanadio in polvere è infiammabile. In particolare tutti i suoi composti sono considerati altamente tossici e, quando vengono inalati, possono causare tumori alle vie respiratorie. In altre parole, per l’Arpacal ha confermato che i rifiuti di “Fornace Tranquilla” costituiti da fanghi e le ceneri derivano dai processi industriali delle centrali termoelettriche a carbone”. Non è esclusa, inoltre, “la concreta e reale possibilità che i componenti pericolosi presenti in abbondanza nei rifiuti stoccati nel sito (metalli pesanti, solfuri e cloruri) possano essere diffusi nell’ambiente circostante attraverso i fenomeni di lisciviazione (la formazione di percolato, ndr) e per via aerea (dispersione di polveri)”. Un disastro ambientale sul quale, rigettando la richiesta di prescrizione, il Tribunale di Vibo Valentia vuole fare luce. Al termine del processo (rinviato al 7 febbraio 2019), se si dovesse arrivare mai a una sentenza di condanna, l’Enel potrebbe essere chiamata in causa per la responsabilità civile. Oltre ai titolari dell’ex “Fornace tranquilla”, infatti, tra gli imputati ci sono alcuni dirigenti della centrale di Brindisi Luciano Mirko Pistillo, Carlo Aiello e Diego Baio. Erano i responsabili dell’impianto che si dovevano occupare dell’unità business, della movimentazione materiali (compresi i rifiuti) e dell’esercizio “Ambiente e sicurezza”.