“Dobbiamo sopravvivere, abbiamo una famiglia da sfamare“. E’ lo slogan con cui all’inizio del mese migliaia di camionisti sono scesi in (auto)strada per protestare contro le condizioni di lavoro sempre più proibitive. Cori, striscioni e strombazzate di clacson si sono fatti largo dalla provincia meridionale del Jiangxi (8 giugno) verso la megalopoli di Chongqing (9 giugno) per arrivare ad abbracciare una dozzina di regioni e municipalità, inclusa Shanghai. Tutto è cominciato con un appello anonimo online indirizzato “ai 30 milioni di autisti di tutta la Cina”, vessati dal rincaro di carburante e pedaggi autostradali. Da allora, in alcune aree, le rimostranze hanno paralizzato la viabilità, sebbene l’entità reale del movimento – immortalato da video e foto – risulti occultata dal lavoro certosino dei censori del web. Secondo fonti del South China Morning Post, alcuni partecipanti sono stati portati via dalla polizia.
Stando a un recente studio della Social Academic Press, la maggior parte dei camionisti cinesi lavora fino a 12 ore al giorno e oltre il 70% non è in grado di assumere un autista di sostegno. I guadagni ammontano a circa 17.000 yuan (2.600 dollari) per un viaggio di 2.500 chilometri dalla città di Wuhan nella Cina centrale fino Shenzhen, nel sud del paese. Così che, tolti casello e benzina, nelle tasche non rimangono che 5.000 yuan per viaggio, a cui vanno scalate le rate mensili del veicolo. A ciò si aggiunge la recente diffusione di un’app (Huochebang), che sulla falsariga di Uber mette direttamente in contatto trasportatori e clienti inasprendo la competizione sui prezzi tra gli autisti stessi.
Gli scioperi dei camionisti seguono a stretto giro la levata di scudi inscenata ad aprile da gruisti e operai del settore edile in circa venti province. Entrambe le proteste presentano elementi di rottura rispetto alle forme di contestazione utilizzate in passato: per la prima volta si tratta di mobilitazioni settoriali (non più limitate a una sola azienda), con estensione interprovinciale e organizzate spontaneamente, senza il supporto esterno di Ong. Tutti elementi che suggeriscono la progressiva maturazione di un movimento operai in senso proprio.
Ma il caso dei trasportatori introduce un’altra questione. Il 90% dei conducenti di camion è composto da lavoratori autonomi, quindi non coperti dalla Labour Contract Law del 2008, che impone al momento dell’assunzione la sottoscrizione di contratti formali per chi opera nel settore manifatturiero. Nell’ultima decade, la transizione dell’economia cinese verso i servizi e la sharing economy ha rosicchiato il numero dei lavoratori contrattualizzati dal 42,8% del 2009 al 35,1% del 2016. Lo scorso anno soltanto la sharing economy ha impiegato 70 milioni di persone, spesso senza forme minime di tutela come contratti regolari, assicurazione sanitaria e ferie retribuite.
Ribilanciare il paradigma di crescita senza distorcere il mercato del lavoro è una delle priorità in cima all’agenda della leadership comunista. Mentre il rallentamento dell’economia nazionale e degli investimenti infrastrutturali minaccia tra i 5 e i 6 milioni di posti di lavoro, secondo China Labour Bulletin, durante le prime dieci settimane del 2018 sono stati rilevati oltre 400 scioperi, più del doppio rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Un bel grattacapo per Pechino, ossessionato dalla stabilità sociale. Una direttiva interna, ripresa da China Digital Times, invita “tutti i siti web in tutte le regioni, a eliminare immediatamente qualsiasi notizia sulle proteste multiprovinciali dei camionisti” con la richiesta esplicita di “aumentare la supervisione e vigilare rigorosamente sui resoconti dei media stranieri e i commenti provocatori.”
Secondo Pun Ngai, esperta di studi sociologici dell’Università di Hong Kong, gli autisti – per via della loro mobilità – sono organizzati meglio della media dei lavoratori attraverso network online con diffusione tentacolare. “Il governo dovrebbe stare molto attento, ma non tanto per via dei rischi politici quanto piuttosto per le possibili ripercussioni economiche sull’intera catena di approvvigionamento,” spiega la ricercatrice-attivista. E’, infatti, proprio grazie ai trasportatori che la lucrosa industria dell’e-commerce è in grado di generare incassi per 24 trilioni di yuan con il trasferimento giornaliero di 84 milioni di tonnellate di merci da una parte all’altra del paese. Ergo, lo stato d’animo dei camionisti rischia di intaccare il mercato dei consumi interni. E questo non va bene per il “Sogno Cinese” di Xi Jinping.
di Chinafiles per ilfattoquotidiano.it