Finalmente! Quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare. Gli ottavi di questo Russia 2018 sono incroci spietati, un setaccio ingiusto perché la sorte, o meglio il pilotaggio Fifa dei gironi giustificato dagli algidi algoritmi che stabiliscono il ranking delle squadre (vi invito a leggere le 28 pagine fitte fitte del sistema matematico adottato per calcolare le gerarchie: un pastrocchio che non tiene conto dell’anima del calcio, cioè la tradizione, i titoli, l’importanza dei campionati, etc) ha subito messo di fronte le Nazioni più forti ma soltanto da una parte del tabellone, quella che è cominciata oggi.
Infatti, già la partita tra la Francia e l’Argentina che si sta giocando mentre scrivo questo blog poteva essere tranquillamente una finale e nessuno se ne sarebbe scandalizzato. I russi, padroni di casa, affrontano la Spagna domani: sulla carta, e secondo i bookmakers che radiografano il calcio reale meglio di chiunque altro, non c’è partita, ma dipartita: quella della Russia. Però la Roja non si è ancora espressa al livello dei suoi valori, e Sergio Ramos, il suo capitano, l’abbiamo visto, più che ammirato, muoversi con una certa febbrilità. Due pareggi (quello spettacolare contro Ronaldo, piuttosto che contro il Portogallo; quello avventuroso e fortunato contro il Marocco), una vittoria striminzita e strappata coi denti, contro il coriaceo Iran, che forse meritava il premio dell’ottavo.
Dell’Argentina sappiamo tutto, e il contrario di tutto. Mi fa pena la figura del cittì Jorge Sampaoli che può consolarsi del milione e 750mila euro con cui viene lautamente pagato per dirigere Messi e una compagnia di anarchici e vanitosi calciatori, più attenti a mettersi in luce per ragioni di mercato, che non a mettere in luce un buon gioco di squadra. “Zurdo”, così lo chiamano i suoi, è privo di carisma. E’ spesso delegittimato dalle interferenze di Maradona che non tollera chi osi di intaccarne la memoria e le imprese. Una sera, quando Repubblica aveva cominciato a distribuire un’edizione “panino” insieme al Clarin di Buenos Aires ed il sottoscritto era stato mandato a lavorare in Argentina, venni invitato a cena dall’allora direttore del giornale, un ex Montonero (così mi avevano detto gli amici di Baires: i montoneros erano dei guerriglieri giustizialisti che volevano un socialismo “nazionale”) che abitava in una villettina.
Entrammo con l’auto nel salotto. Letteralmente: il garage non era separato dal resto della casa. Cenammo, poi, inevitabilmente continuammo la serata discutendo del più e del meno. Fino a quando non affrontammo il discorso Maradona: mi era toccato, in passato, di essere spedito a Buenos Aires in fretta e furia perché il campione era stato ricoverato in gravissime condizioni all’ospedale, per un’overdose. La tossicodipendenza di Diego era notoria. Da noi, non è mai stato un buon biglietto da visita.
In Argentina, invece, il vizio di Maradona – che poi andò a curarsi a Cuba, dal suo grande amico Fidel Castro che gli fornì le migliori cure, in una clinica dell’Avana – non ne aveva intaccato la grandezza sportiva e il carisma. Anzi, gli aveva dato una dimensione più umana. Diego Armando “è uno di noi, un campione del popolo argentino che ha lottato per l’Argentina dei poveri, degli esclusi: ma lo sai che aiuta con generose donazioni i più deboli della nostra società, una società sempre più ingiusta, dove i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri?”, mi disse con orgoglio il direttore del Clarin che incominciava ad irritarsi perché un giornalista italiano stava mettendo in discussione il lato oscuro del più grande calciatore di tutti i tempi, “altro che Pelé!”.
Appena gli ricordai che era stato squalificato proprio per assunzione di sostanze stupefacenti, lui sbottò: “Ma come vi permettete voi di criticarlo, voi che a Napoli l’avete rovinato inducendolo a drogarsi per rubargli i soldi che guadagnava col suo talento!”. E mi congedò bruscamente. Maradona, insomma, è intoccabile. Sampaoli, invece, è toccabilissimo. Intanto, gli si affibbiano colpe surreali: non è di Buenos Aires, e questo passi; non è stato un giocatore professionista, e già qui si fa del razzismo pedatorio; soprattutto, non conta nulla sui grandi media argentini che gli riproverano d’aver detto una volta: “Sì, sono kirchnerista”, ossia aveva votato per Cristina Fernandez de Kirchner, presidentessa dell’Argentina dal 2007 al 2015, moglie dell’ex presidente Nestor Kirchner, eletta come leader del Fronte per la Vittoria, partito del peronismo di sinistra e sostenuta da Concertacion Plural, una coalizione di centro-sinistra.
Sampaoli non ha mai nascosto le sue preferenze politiche di centro-sinistra, cosa che rivendicò anche quando divenne cittì dell’Albiceleste. La principale emittente del Grupo Clarin, Radio Mitre, non lo perdonò e cominciò a denigrarlo. Lui scosse le spalle e continuò dritto per la sua strada politica. Anzi, quando si trattava di motivare i giocatori della nazionale, non esitava a utilizzare discorsi di Peron ed Evita per coinvolgerli emotivamente. E quando andò in Spagna con la nazionale, disse che sentiva come le sue idee fossero vicine a quelle di Podemos, il partito di sinistra populista guidato da Pablo Iglesias: “Me vinculo con la gente, con quien lo necesita”, rispose ai giornalisti di Siviglia. Cito l’originale, che non ha bisogno d’essere tradotto.
Tutto ciò l’ho scoperto leggendo quel che ha scritto il giornalista Pablo Pavan (lavora per Radio 2 e Espn) nella biografia autorizzata “No Escucho y Sigo” (“Non ascolto e continuo”, Librofutbol, 2015) dedicata al suo vicino, nella cittadina di Casilda (provincia di Santa Fe): “Conosco Zurdo da una vita, abitiamo a mezzo isolato l’uno dall’altro; lo conosco da quando, adolescente, avvisava amici e parenti che stavano per arrivare le Ford Falcon verdi, le auto preferite dei miliziani al soldo di Videla, al tempo della dittatura, usate per sequestrare la gente e farla sparire; lo conosco da quando giocava e poi si mise ad allenare l’Alumni di Casilda”. Pavan stesso ha giocato nell’Alumni: “Avevo sei anni, lui dirigeva la Primavera…”.
Una vita da mediano medianissimo, quella di Jorge Sampaoli. Cominciata dai campetti di quartiere, proseguita a Rosario, sino a guidare il Cile che nel 2015 conquistò la Copa America e poi al Siviglia, che guidò dal 2016 al 2017. Dunque, un discreto curriculum da allenatore. Chissà, pensarono i dirigenti della federazione argentina, uno che non potrà pretendere più di tanto, a proposito delle scelte tattiche e sui nomi della formazione: “Arrivò – racconta Pavan – in un momento di grande confusione. Pochi risultati positivi, guerra tra dirigenti, la frustrazione delle finali perse, la Coppa del Mondo del 2014 contro la Germania, quelle di Copa America del 2015 e del 2016.
Del passato grigio e anonimo di Sampaoli si rammenta un episodio. Successe nel 2001. Quando l’arbitro lo espelle e lui si arrampica su di un albero e continua ad urlare le sue consegne ai suoi giocatori. E‘ il trampolino di lancio. Passa alla squadra B dei Newell’s Old Boys, una delle due grandi squadre di Rosario. Dove giocò Marcelo Bielsa, il “Loco”. Il Pazzo. Di cui era pazzo Sampaoli. Il quale, coi primi guadagni, va in Spagna ed in Italia per apprendere le novità tecniche e per studiare i metodi d’allenamento: “Lasciai Castilda come un Cristoforo Colombo del calcio”, confidò a Pavan, “volevo conquistare il calcio mondiale. Sono partito senza niente, non avevo nemmeno gli abiti”.
La gloria lo raggiunge, ma dall’altra parte delle Ande. Vince tutto con l’Universidad de Chile, una delle squadre più popolari di Santiago. Gli affidano la nazionale cilena. Arriva in finale di Copa America. E chi si ritrova, come avversario? L’Argentina. La patria ingrata. Vince. Ma non convince gli argentini: nessun club bussa alla sua porta. Così emigra in Andalusia. Lo vuole il Siviglia. Si sente un eterno esule.
L’estate del 2017, la svolta. L’Argentina annaspa. Edgardo Bauza, il cittì, viene allontanato. La prima scelta della federazione argentina sarebbe Diego Simeone, che allena l’Atletico Madrid: “No grazie”, risponde Diego. Marcelo Bielsa, il Loco, è la seconda scelta: “No grazie”, risponde Marcelo, che non vuole essere triturato da Maradona e dai suoi fantasmi. Alla fine, si opta per l’impetuoso Sampaoli: “Sapevo che sarebbe stata dura, ma allenare l’Argentina era il mio sogno. Era un’occasione unica. Forse non mi si sarebbe mai più presentata”.
Il resto è noto. Salvo, lui che noto non è alla maggior parte dei suoi connazionali. Da peronista convinto, si rimbocca le maniche. Dice, tanto per far capire di che pasta è fatto: “Io non pianifico niente. Tutto sta dentro la mia testa ed esce quando deve uscire. Il calcio non si studia. Si sente e si vive”. Belle parole. Poetiche. Ma poco vere: lui è andato in Europa a studiarlo, il calcio. Comunque, lo irridono. Compaiono per strada cartelli che sfottono la sua biografia: “Prima costava 275 pesos (cioè 9 euro), oggi la trovate a 3 pesos”. Poco per volta, Sampaoli scopre di stare sulle palle a tantissimi. Lo mettono in croce per le sue idee progressiste, “sono della scuola bielsista”, afferma Jorge, sfoggia un vistoso tatuaggio, quello dei Redondos (vecchio gruppo rock argentino molto popolare), l’accusano d’essere arrogante. Capace di dire ad un poliziotto d’essere “un coglione che guadagna appena cento pesos al mese”, ma questa è una testimonianza di Diego Murzi, sociologo argentino che oggi è sugli spalti dell’arena di Kazan per tifare l’Albiceleste ed è membro dell’ong Salvemos al Futbol (Salviamo il calcio lotta contro la violenza dentro e attorno agli stadi).
Dulcis in fundo, la recentissima accusa d’aver aggredito sessualmente una cuoca della selezione argentina, poco prima della trasferta russa. Lui sdegnosamente smentisce le calunnie. Sa che fanno parte del gioco. Non solo del calcio.