Eppur si muove: a scuotere il mondo dei bitcoin e delle criptovalute oltre la nicchia dei super-esperti e dei tecnici sono 21 pagine su un foglio bianco e in formato pdf rintracciabili al link del sito Nakamoto family foundation che dovrebbero rappresentare il primo estratto di un libro a firma di Satoshi Nakamoto, l’anonimo tecnologico per eccellenza. È il nome utilizzato per indicare l’inventore dei bitcoin: nonostante le decine di proclamazioni e auto-proclamazioni, non è mai stato svelato. Oggi, secondo il Time, avrebbe 900mila bitcoin, circa 4,8 miliardi di dollari al valore attuale.

Ventuno pagine pubblicate nei giorni scorsi che, secondo quanto dichiarato sul sito, sono solo una prima parte di un volume e di una storia che si dipaneranno nel tempo e di cui si può scoprire il titolo solo risolvendo un enigma criptato. Un test semplice: il risultato è “Honne e Tatamae“, una traslitterazione di una frase giapponese che dovrebbe rappresentare il contrasto tra i sentimenti privati di una persona e il loro comportamento pubblico. E l’estratto si intitola “Dualismo”.

È stato Wired il primo a interrogarsi sulla veridicità del testo, interrogando anche molti membri della prima comunità di bitcoin. Nessuno si sbilancia, nomi e informazioni riferiti nel testo sono rintracciabili pubblicamente, le novità sono soprattutto biografiche e permanendo l’anonimato, al momento non verificabili. Questo Nakamoto dice che sua madre è un’autrice mentre sua nonna è fondatrice di una piccolissima casa editrice. Spiega che grazie a loro ha ereditato la passione per l’ortografia e la ricerca degli errori, tanto nella scrittura quanto, poi, nei codici. All’età di 14 anni, scrive, sarebbe stato coinvolto nella comunità dei cypherpunk, attivisti che fanno della crittografia una ragione di vita e, soprattutto, di cambiamento “dove – si legge – l’anonimato era fondamentale come respirare”.

Dice di aver avuto più di 20 anni quando ha iniziato a pubblicare su bitcoin mentre lavorava come ricercatore universitario in un laboratorio. E di aver inventato lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto perché era l’equivalente giapponese di “John Smith“. E conferma: non sarebbe giapponese. E ancora, spiega di aver sempre fatto di tutto per garantire il proprio anonimato tranne dimenticarsi di fare in modo che l’alternanza tra sonno e veglia (sostanzialmente il ritmo con cui pubblicava e scriveva online) non permettesse di identificare la sua posizione (la costa orientale degli Stati Uniti).

Insomma, potete leggere tutta la storia a questo link: piacevole e appassionante quanto un documentario (se fosse vera) o un’opera narrativa (ma non dovrebbe esserlo). Di sicuro Wired fa notare come, negli anni, la prova richiesta a tutti i neoproclamati Satoshi (Craig Steven Wright, Nick Szabo o Dorian Nakamoto) sia sempre stata l’utilizzare le chiavi crittografiche dei primi bitcoin per spostarli. Ma finora nessuno lo ha mai fatto.

“In tutto questo tempo, nessuno ha dimostrato di essere Nakamoto per la soddisfazione dei membri della comunità crittografica che hanno contribuito a dare vita al bitcoin – scrive Wired – come gli scettici nella comunità hanno ripetutamente sottolineato, il vero Satoshi dovrebbe avere accesso alle chiavi crittografiche che controllano le prime monete bitcoin che sono rimaste inutilizzate per un decennio. Se qualcuno che pretende di essere Nakamoto dovesse spostare una di quelle monete in un indirizzo diverso o firmare qualcosa con chiavi che solo Satoshi ha, sarebbe una buona conferma”. Noi aspettiamo. Trepidanti.

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