di Jacopo Bencini
Abidjan, Costa d’Avorio – Si è concluso il 29 giugno il vertice degli attori climatici non statali e substatali africani, riuniti nella capitale economica ivoriana dall’associazione francese Climate chance. Per due giorni, centinaia di rappresentanti di istituzioni locali, imprese, associazioni, ong ambientali, dei popoli indigeni e del mondo della ricerca di tutto il continente – nonostante una chiara maggioranza francofona – hanno discusso della necessità di un maggiore coinvolgimento dell’intera società africana nella battaglia contro il cambiamento climatico, se davvero si vuole limitare il riscaldamento globale entro un grado e mezzo dall’inizio del secolo come dichiarato nel 2015 con l’Accordo di Parigi. L’impegno dei governi nazionali potrebbe infatti non bastare. Questo era già chiaro nel 2015, quando i negoziatori della Cop21 convennero di inserire, nell’atto che adotta l’Accordo di Parigi, un riferimento ai “portatori d’interesse non statali” come possibili attori complementari.
Quanto finora promesso dalla maggioranza dei governi dei paesi inquinanti – l’Occidente capitalista, più la Cina – non sarà sufficiente. Vi è ormai consenso nella comunità scientifica rispetto all’inadeguatezza delle promesse di mitigazione delle emissioni climalteranti presentate dai maggiori inquinatori, e non a caso si registra una sempre maggiore attenzione al mondo degli attori non-statali anche da parte della Commissione Europea, che vede nell’azione della società civile un complemento sempre più necessario alle politiche ambientali dei singoli stati membri. Il primo grande evento sul tema a livello europeo si è difatti tenuto a Bruxelles solo due settimane fa.
Ma, si potrebbe obiettare, l’Africa nel suo complesso emette meno del 10% delle emissioni climalteranti a livello globale. In che senso le politiche climatiche dei suoi stati potrebbero non essere sufficienti, o non sufficientemente ambiziose? Perché anche dall’altra sponda del Mediterraneo si sente l’esigenza di coinvolgere la società civile e le imprese? La risposta risiede nell’altra faccia della moneta climatica, l’adattamento.
La maggior parte degli stati africani si trova stretta in una difficile equazione fra crescita demografica, crescita socioeconomica, e crescita sostenibile. Una popolazione destinata a raddoppiare entro la metà del secolo necessita di cibo e posti di lavoro, con società che si devono quindi rimodulare al passo con l’aumento del numero di cittadini, e la conseguente nuova domanda energetica. Secondo i governi africani, è dunque diritto del continente industrializzarsi, secondo un modello di crescita simile a quello osservato dai paesi occidentali con le tre rivoluzioni industriali. La sfida è farlo in un arco di tempo molto più breve, più in fretta, e possibilmente in modo più sostenibile. Sì, le emissioni africane sono destinate ad aumentare, come scritto nero su bianco in molti contributi nazionali depositati sotto l’Accordo di Parigi, ma almeno in teoria dovrebbero essere più che compensate dal drastico calo di quelle occidentali e cinesi. Per vivere questo sviluppo, tuttavia, l’Africa deve avere i mezzi per lavorare da subito sull’adattamento ai cambiamenti climatici già in atto. Siccità, migrazioni forzate delle popolazioni agricole dovute all’improvvisa perdita di produttività dei terreni, inondazioni frequenti nelle zone costiere e nelle megacittà affacciate sugli oceani sono solo alcuni dei fattori capaci di vanificare ogni sforzo di sviluppo del continente.
L’adattamento ai cambiamenti climatici, sebbene derivante da un problema globale, è inevitabilmente una questione locale, perché inevitabilmente locali sono le soluzioni da trovare. Per questo imprese e società civile si stanno mobilitando per fare rete, lavorare meglio. Non ultimo, per trovare finanziamenti e sviluppare capacità e non dipendere sempre da finanziatori o organizzazioni esterne, spesso straniere. Ad Abidjan la vasta e composita platea ha discusso di educazione, formazione, piani clima a livello locale e municipale, deforestazione, efficientamento energetico, mobilità sostenibile, accesso all’acqua, filiere sostenibili, e di come poter fare a meno dell’eterno legame a doppio filo con i paesi ricchi, primi finanziatori di questo tipo di iniziative ed allo stesso tempo primi estrattori ed importatori di risorse naturali. La presenza ad Abidjan, fra gli ospiti d’onore, di una delegata del governo francese non aggiunge niente di nuovo ad un contesto ancora largamente influenzato dalle vecchie madriepatrie coloniali.
Il messaggio da portare a casa dopo due giorni di dibattiti, spesso accesi e comunque sempre costruttivi, è che dal punto di vista della mobilitazione climatica l’Africa si sta muovendo, con chiara cognizione di causa ed una visione condivisa. La sfida lanciata ad Abidjan è quindi la seguente: camminare da soli, lavorando assieme all’Occidente per quanto riguarda la costruzione di competenze a livello locale. Quanto il primo punto sarà atteso nel prossimo futuro dipende molto, e inevitabilmente, dalla politica, e dal perdurare di logiche di dipendenze postcoloniali ancora forti e chiaramente identificabili – da ambo le parti.