di Jacopo Bencini
Abidjan, Costa d’Avorio – Si è concluso il 29 giugno il vertice degli attori climatici non statali e substatali africani, riuniti nella capitale economica ivoriana dall’associazione francese Climate chance. Per due giorni, centinaia di rappresentanti di istituzioni locali, imprese, associazioni, ong ambientali, dei popoli indigeni e del mondo della ricerca di tutto il continente – nonostante una chiara maggioranza francofona – hanno discusso della necessità di un maggiore coinvolgimento dell’intera società africana nella battaglia contro il cambiamento climatico, se davvero si vuole limitare il riscaldamento globale entro un grado e mezzo dall’inizio del secolo come dichiarato nel 2015 con l’Accordo di Parigi. L’impegno dei governi nazionali potrebbe infatti non bastare. Questo era già chiaro nel 2015, quando i negoziatori della Cop21 convennero di inserire, nell’atto che adotta l’Accordo di Parigi, un riferimento ai “portatori d’interesse non statali” come possibili attori complementari.
Quanto finora promesso dalla maggioranza dei governi dei paesi inquinanti – l’Occidente capitalista, più la Cina – non sarà sufficiente. Vi è ormai consenso nella comunità scientifica rispetto all’inadeguatezza delle promesse di mitigazione delle emissioni climalteranti presentate dai maggiori inquinatori, e non a caso si registra una sempre maggiore attenzione al mondo degli attori non-statali anche da parte della Commissione Europea, che vede nell’azione della società civile un complemento sempre più necessario alle politiche ambientali dei singoli stati membri. Il primo grande evento sul tema a livello europeo si è difatti tenuto a Bruxelles solo due settimane fa.
Ma, si potrebbe obiettare, l’Africa nel suo complesso emette meno del 10% delle emissioni climalteranti a livello globale. In che senso le politiche climatiche dei suoi stati potrebbero non essere sufficienti, o non sufficientemente ambiziose? Perché anche dall’altra sponda del Mediterraneo si sente l’esigenza di coinvolgere la società civile e le imprese? La risposta risiede nell’altra faccia della moneta climatica, l’adattamento.
La maggior parte degli stati africani si trova stretta in una difficile equazione fra crescita demografica, crescita socioeconomica, e crescita sostenibile. Una popolazione destinata a raddoppiare entro la metà del secolo necessita di cibo e posti di lavoro, con società che si devono quindi rimodulare al passo con l’aumento del numero di cittadini, e la conseguente nuova domanda energetica. Secondo i governi africani, è dunque diritto del continente industrializzarsi, secondo un modello di crescita simile a quello osservato dai paesi occidentali con le tre rivoluzioni industriali. La sfida è farlo in un arco di tempo molto più breve, più in fretta, e possibilmente in modo più sostenibile. Sì, le emissioni africane sono destinate ad aumentare, come scritto nero su bianco in molti contributi nazionali depositati sotto l’Accordo di Parigi, ma almeno in teoria dovrebbero essere più che compensate dal drastico calo di quelle occidentali e cinesi. Per vivere questo sviluppo, tuttavia, l’Africa deve avere i mezzi per lavorare da subito sull’adattamento ai cambiamenti climatici già in atto. Siccità, migrazioni forzate delle popolazioni agricole dovute all’improvvisa perdita di produttività dei terreni, inondazioni frequenti nelle zone costiere e nelle megacittà affacciate sugli oceani sono solo alcuni dei fattori capaci di vanificare ogni sforzo di sviluppo del continente.
L’adattamento ai cambiamenti climatici, sebbene derivante da un problema globale, è inevitabilmente una questione locale, perché inevitabilmente locali sono le soluzioni da trovare. Per questo imprese e società civile si stanno mobilitando per fare rete, lavorare meglio. Non ultimo, per trovare finanziamenti e sviluppare capacità e non dipendere sempre da finanziatori o organizzazioni esterne, spesso straniere. Ad Abidjan la vasta e composita platea ha discusso di educazione, formazione, piani clima a livello locale e municipale, deforestazione, efficientamento energetico, mobilità sostenibile, accesso all’acqua, filiere sostenibili, e di come poter fare a meno dell’eterno legame a doppio filo con i paesi ricchi, primi finanziatori di questo tipo di iniziative ed allo stesso tempo primi estrattori ed importatori di risorse naturali. La presenza ad Abidjan, fra gli ospiti d’onore, di una delegata del governo francese non aggiunge niente di nuovo ad un contesto ancora largamente influenzato dalle vecchie madriepatrie coloniali.
Il messaggio da portare a casa dopo due giorni di dibattiti, spesso accesi e comunque sempre costruttivi, è che dal punto di vista della mobilitazione climatica l’Africa si sta muovendo, con chiara cognizione di causa ed una visione condivisa. La sfida lanciata ad Abidjan è quindi la seguente: camminare da soli, lavorando assieme all’Occidente per quanto riguarda la costruzione di competenze a livello locale. Quanto il primo punto sarà atteso nel prossimo futuro dipende molto, e inevitabilmente, dalla politica, e dal perdurare di logiche di dipendenze postcoloniali ancora forti e chiaramente identificabili – da ambo le parti.
Italian Climate Network
Il movimento per il clima
Ambiente & Veleni - 2 Luglio 2018
Clima, dalla Costa d’Avorio l’ambizione della società africana
di Jacopo Bencini
Abidjan, Costa d’Avorio – Si è concluso il 29 giugno il vertice degli attori climatici non statali e substatali africani, riuniti nella capitale economica ivoriana dall’associazione francese Climate chance. Per due giorni, centinaia di rappresentanti di istituzioni locali, imprese, associazioni, ong ambientali, dei popoli indigeni e del mondo della ricerca di tutto il continente – nonostante una chiara maggioranza francofona – hanno discusso della necessità di un maggiore coinvolgimento dell’intera società africana nella battaglia contro il cambiamento climatico, se davvero si vuole limitare il riscaldamento globale entro un grado e mezzo dall’inizio del secolo come dichiarato nel 2015 con l’Accordo di Parigi. L’impegno dei governi nazionali potrebbe infatti non bastare. Questo era già chiaro nel 2015, quando i negoziatori della Cop21 convennero di inserire, nell’atto che adotta l’Accordo di Parigi, un riferimento ai “portatori d’interesse non statali” come possibili attori complementari.
Quanto finora promesso dalla maggioranza dei governi dei paesi inquinanti – l’Occidente capitalista, più la Cina – non sarà sufficiente. Vi è ormai consenso nella comunità scientifica rispetto all’inadeguatezza delle promesse di mitigazione delle emissioni climalteranti presentate dai maggiori inquinatori, e non a caso si registra una sempre maggiore attenzione al mondo degli attori non-statali anche da parte della Commissione Europea, che vede nell’azione della società civile un complemento sempre più necessario alle politiche ambientali dei singoli stati membri. Il primo grande evento sul tema a livello europeo si è difatti tenuto a Bruxelles solo due settimane fa.
Ma, si potrebbe obiettare, l’Africa nel suo complesso emette meno del 10% delle emissioni climalteranti a livello globale. In che senso le politiche climatiche dei suoi stati potrebbero non essere sufficienti, o non sufficientemente ambiziose? Perché anche dall’altra sponda del Mediterraneo si sente l’esigenza di coinvolgere la società civile e le imprese? La risposta risiede nell’altra faccia della moneta climatica, l’adattamento.
La maggior parte degli stati africani si trova stretta in una difficile equazione fra crescita demografica, crescita socioeconomica, e crescita sostenibile. Una popolazione destinata a raddoppiare entro la metà del secolo necessita di cibo e posti di lavoro, con società che si devono quindi rimodulare al passo con l’aumento del numero di cittadini, e la conseguente nuova domanda energetica. Secondo i governi africani, è dunque diritto del continente industrializzarsi, secondo un modello di crescita simile a quello osservato dai paesi occidentali con le tre rivoluzioni industriali. La sfida è farlo in un arco di tempo molto più breve, più in fretta, e possibilmente in modo più sostenibile. Sì, le emissioni africane sono destinate ad aumentare, come scritto nero su bianco in molti contributi nazionali depositati sotto l’Accordo di Parigi, ma almeno in teoria dovrebbero essere più che compensate dal drastico calo di quelle occidentali e cinesi. Per vivere questo sviluppo, tuttavia, l’Africa deve avere i mezzi per lavorare da subito sull’adattamento ai cambiamenti climatici già in atto. Siccità, migrazioni forzate delle popolazioni agricole dovute all’improvvisa perdita di produttività dei terreni, inondazioni frequenti nelle zone costiere e nelle megacittà affacciate sugli oceani sono solo alcuni dei fattori capaci di vanificare ogni sforzo di sviluppo del continente.
L’adattamento ai cambiamenti climatici, sebbene derivante da un problema globale, è inevitabilmente una questione locale, perché inevitabilmente locali sono le soluzioni da trovare. Per questo imprese e società civile si stanno mobilitando per fare rete, lavorare meglio. Non ultimo, per trovare finanziamenti e sviluppare capacità e non dipendere sempre da finanziatori o organizzazioni esterne, spesso straniere. Ad Abidjan la vasta e composita platea ha discusso di educazione, formazione, piani clima a livello locale e municipale, deforestazione, efficientamento energetico, mobilità sostenibile, accesso all’acqua, filiere sostenibili, e di come poter fare a meno dell’eterno legame a doppio filo con i paesi ricchi, primi finanziatori di questo tipo di iniziative ed allo stesso tempo primi estrattori ed importatori di risorse naturali. La presenza ad Abidjan, fra gli ospiti d’onore, di una delegata del governo francese non aggiunge niente di nuovo ad un contesto ancora largamente influenzato dalle vecchie madriepatrie coloniali.
Il messaggio da portare a casa dopo due giorni di dibattiti, spesso accesi e comunque sempre costruttivi, è che dal punto di vista della mobilitazione climatica l’Africa si sta muovendo, con chiara cognizione di causa ed una visione condivisa. La sfida lanciata ad Abidjan è quindi la seguente: camminare da soli, lavorando assieme all’Occidente per quanto riguarda la costruzione di competenze a livello locale. Quanto il primo punto sarà atteso nel prossimo futuro dipende molto, e inevitabilmente, dalla politica, e dal perdurare di logiche di dipendenze postcoloniali ancora forti e chiaramente identificabili – da ambo le parti.
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Economia & Lobby
Nuova mossa nella guerra commerciale Usa contro la Cina: stop all’arrivo di pacchi. Temu e Shein a rischio. Pechino: “Irragionevole”
Lavoro & Precari
Crisi dell’auto: Italia, Francia e Germania “svuotate” dall’Est. E ora c’è chi va in Africa. Industria a pezzi, gli operai in piazza a Bruxelles: ‘Ue governi la transizione’
Da Il Fatto Quotidiano in Edicola
Da ‘governo estraneo’ a ‘scelta politica’: tutte le versioni sul caso Almasri. La nuova piroetta di Nordio: ‘Dall’Aja mandato d’arresto con errori’
Washington, 5 feb. (Adnkronos/Afp) - Una sparatoria nello Stato americano dell'Ohio ha provocato almeno un morto e cinque feriti. Ad annunciarlo alle prime ore di oggi è stata la polizia locale, spiegando che il presunto responsabile è ancora in fuga.
La sparatoria è avvenuta nella tarda serata di ieri ora locale a New Albany, in un deposito in cui sono immagazzinati cosmetici. C'è stata "una vittima" e cinque feriti, raggiunti da colpi di arma da fuoco, ora ricoverati in ospedale, ha annunciato Greg Jones, capo della polizia della città.
Sulla "persona di interesse", ossia il sospetto, Jones ha detto che non vi è motivo "di credere che sia una minaccia generale per la società". "Sembra che si tratti di un attacco mirato", ha aggiunto, spiegando che la polizia ha evacuato circa 150 persone e che nel magazzino è stata trovata un'arma da fuoco. Jones ha detto che le autorità stanno operando per fermare il sospetto.
Pechino, 4 feb. (Adnkronos) - Pechino non resta ferma davanti alla decisione di Trump di porre dazi aggiuntivi del 10% sui prodotti cinesi importati negli Stati Uniti. Ma manda una risposta che, secondo molti osservatori, è "più simbolica" che altro. La rappresaglia cinese colpisce il settore dell'energia, delle auto, arriva con "contromisure" che prendono di mira singole aziende americane e con una stretta sulle esportazioni di metalli e metalloidi, oltre a un'indagine antitrust contro Google. Sembra l'inizio di un nuovo round della guerra commerciale tra le due potenze. Quella in cui, ripetono da tempo i cinesi, "non ci sono vincitori né vinti".
Il leader cinese Xi Jinping, che non fa mistero delle sue ambizioni di una Cina alla guida di un ordine mondiale alternativo, potrebbe vedere persino un'opportunità, evidenzia la Bbc, sottolineando come le contromisure cinesi, tutte mirate, siano limitate nella portata rispetto ai dazi decisi da Trump, come l'impatto sugli Usa possa essere limitato. Gli Stati Uniti sono il principale esportatore di Gnl al mondo, ma riguarda la Cina circa il 2,3% di queste esportazioni e il grosso delle importazioni di auto arriva da Europa e Giappone. Così, secondo la rete britannica, potrebbe trattarsi di un modo per guadagnare un po' di potere contrattuale in vista di eventuali colloqui, anche se esiste comunque il rischio di una guerra commerciale più vasta fatta di rappresaglie.
La rete britannica sottolinea come molto sia cambiato dalla prima Amministrazione Trump, come l'economia cinese non sia più dipendente dagli Stati Uniti, come era nel 2020, come Pechino abbia rafforzato gli accordi con gli 'amici' in Africa, in America Latina e nel Sudest asiatico. E, rimarca la Bbc, mentre le mosse di Trump seminano divisione, con la minaccia di colpire persino l'Ue con i dazi, la Cina vorrà apparire calma, stabile e forse anche un partner commerciale più attraente.
La risposta cinese ai nuovi dazi "è una mossa più che altro simbolica", secondo Louise Loo di Oxford Economics, che - come riporta il Wall Street Journal - ritiene probabile ulteriori round di dazi. La risposta cinese sembra voler tenere 'in panchina' "misure che potrebbero provocare un danno più importante agli scambi commerciali" tra le due potenze, scrive il New York Times. "Si tratta di una risposta relativamente limitata, che interessa non più del 30% delle esportazioni Usa in Cina", conviene Bert Hofman, con un passato alla Banca Mondiale e ora docente all'East Asian Institute della National University of Singapore. Anche perché, è il ragionamento, probabilmente i cinesi si tengono pronti poiché "questo potrebbe essere solo il primo passo dell'Amministrazione Trump".
In questo contesto, secondo Yun Sun, direttore del programma Cina dello Stimson Centre, con "la politica 'America First' di Trump", che "porterà sfide e minacce per tutti i Paesi nel mondo", dal "punto di vista della competizione strategica Usa-Cina, un peggioramento di leadership e credibilità statunitense andrà a vantaggio della Cina".
E, come dice alla Bbc John Delury, docente alla Yonsei University di Seul, "la combinazione di dazi contro i principali partner commerciali e il blocco degli aiuti all'estero mandano al Sud Globale e all'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico il messaggio che gli Usa non sono interessati alla collaborazione a livello internazionale". Così, "il messaggio di Xi sulla globalizzazione 'win-win' assume un significato completamente nuovo mentre l'America fa un passo indietro".
Tuttavia, evidenzia Chong Ja Ian di Carnegie China, "molti alleati e partner degli Usa, soprattutto nel Pacifico, hanno motivi per lavorare con Pechino, ma hanno anche ragione per essere prudenti". E per questo, osserva, "abbiamo visto avvicinarsi Giappone, Corea del Sud, Filippine e Australia". Ci sono i timori per l'assertività cinese nel Mar cinese meridionale, ma anche per Taiwan, isola di fatto indipendente che Pechino considera una "provincia ribelle" da "riunificare" e che è uno dei 'temi caldi' nei rapporti tra Washington e Pechino.
Roma, 5 feb. (Adnkronos) - Per trovare un compromesso con la nuova amministrazione americana di Donald Trump, che ha già iniziato una guerra commerciale con Messico, Canada e Cina, "occorre dialogare, e l'Italia è il migliore ambasciatore dell'Unione europea". Questo è quanto sostenuto dal ministro degli Esteri, Antonio Tajani, nella sua audizione a Montecitorio sul Consiglio affari esteri dell’Unione europea dello scorso 27 gennaio. "Mi sembra che il presidente Trump stia dando i primi segnali di volontà di negoziare. Lo dimostra quanto accaduto nelle ultime ore con la sospensione dei dazi per Canada e Messico, dimostra che il dialogo serve", ha aggiunto.
"A Bruxelles ho ribadito l’importanza di individuare un’agenda positiva su cui lavorare con gli Stati Uniti, mantenendoci pragmatici e aperti. La politica commerciale della nuova Amministrazione americana rappresenta un banco di prova per tutta l’Unione europea. È una sfida che vogliamo affrontare uniti, senza reazioni scomposte e spirali incontrollate. Le guerre commerciali non convengono a nessuno", ha detto. "Noi ci faremo trovare pronti. Stiamo elaborando una strategia per aumentare il raggio d’azione del nostro export e raggiungere sempre più nuovi mercati, come già avvenuto nel 2024, quando abbiamo raggiunto la cifra record di 305 miliardi di euro di export nell’area extra Ue", ha aggiunto.
"L’economia europea e quella americana sono profondamente legate. Il volume dell’interscambio rappresenta un terzo dell’intero commercio mondiale. Di tutti i beni statunitensi all’estero, due terzi sono in Europa - ha proseguito il ministro - Sono pertanto fiducioso che riusciremo a trovare dei punti di intesa anche sul piano commerciale, nel quadro del nostro rapporto solido con Washington".
"L’unità fra le due sponde dell’Atlantico è peraltro cruciale per tutelare i nostri interessi strategici, dal Mediterraneo allargato al Mar Rosso. Una tutela che deve essere garantita anche dallo strumento di una difesa comune. La Nato ne è la pietra angolare. Come ho sottolineato lo scorso mese di dicembre al Segretario Generale Rutte. Dobbiamo rafforzare il suo pilastro europeo. L’Europa deve dimostrare di sapersi assumere le proprie responsabilità. Serve infatti un salto di qualità nel processo d’integrazione, a cominciare appunto dal tema della difesa - ha detto Tajani - Cruciale sarà il tema dei finanziamenti. Dovremo pensare a soluzioni innovative, superare i tabù, scorporare le spese della difesa dai vincoli del Patto di Stabilità e Crescita, utilizzare gli eurobond e attingere a fondi del Next Generation Eu non utilizzati".
"Tornerò domani in Israele. L’Italia vuole essere protagonista di questo processo di pacificazione e di ricostruzione della Striscia", ha poi sottolineato poi Tajani aggiungendo: "Sul fronte israelo-palestinese, il Consiglio ha discusso della situazione sul terreno all’indomani del cessate il fuoco a Gaza. Abbiamo tutti accolto con sollievo le prime liberazioni di ostaggi e l’aumento dell’accesso di aiuti umanitari nella Striscia". "È un risultato a cui abbiamo lavorato senza sosta anche come presidenza del G7, sostenendo la mediazione di Stati Uniti, Qatar ed Egitto - ha ricordato - Proprio per questo ho voluto essere in Israele e Palestina già il giorno dopo l’entrata in vigore del cessate il fuoco. Ho incontrato il Presidente Herzog e il Ministro degli Esteri Sa’ar, e a Ramallah il Premier palestinese Mustafa, al quale ho annunciato un nuovo contributo da 10 milioni di euro a favore della popolazione di Gaza".
"Hamas non può tornare a controllare la Striscia. La popolazione di Gaza ha pagato un prezzo troppo alto per la sua follia terroristica. Per questo siamo in prima linea nel sostegno all’Autorità palestinese nel suo processo di riforme. A tale riguardo, il ridispiegamento della Missione europea Eubam a Rafah è un segnale fondamentale, dall’alto valore anche simbolico: una significativa presenza europea, con il compito di assistere l’Autorità Palestinese nella gestione del valico che collega Gaza all’Egitto - ha proseguito - Si tratta di uno snodo fondamentale per l’accesso umanitario e per la ripresa economica della Striscia".
"Come ha ribadito anche il ministro Crosetto, l’Italia garantirà ogni contributo necessario. I nostri Carabinieri dispiegati all’interno della missione hanno già raggiunto Rafah. Li incontrerò domani, insieme al Comandante generale dei Carabinieri Salvatore Luongo e al personale impegnato nella missione Miadit a Gerico che contribuisce alla formazione delle forze di sicurezza palestinesi. I nostri militari saranno una garanzia di equilibrio e stabilità, così come lo sono da tempo al confine tra Serbia e Kosovo", ha detto ancora il vicepremier.
"Il valico di Rafah sarà gestito in prima battuta da personale dell’Autorità palestinese in uniforme. È un punto molto importante, che consente all’Anp di tornare ad esercitare la propria sovranità su una porzione del territorio della Striscia. È un passo in avanti verso la seconda fase dell’accordo, ma anche la dimostrazione che l’Europa può fornire un contributo rilevante alla costruzione di una nuova stagione in Palestina, tanto in Cisgiordania quanto a Gaza - ha detto, per poi conculudere che - Con la nuova Amministrazione americana potremo lavorare anche per ridare slancio agli Accordi di Abramo per normalizzare i rapporti dei Paesi arabi con Israele. Quel percorso si era interrotto con gli attacchi del 7 ottobre. Adesso si devono riannodare i fili.
Washington, 5 feb. (Adnkronos/afp) - Il presidente americano Donald Trump ha svelato, nell'incontro a Washington con il premier israeliano Benjamin Netanyahu, il piano straordinario con cui gli Stati Uniti potrebbero assumere il controllo della Striscia di Gaza, trasformando il territorio nella "Riviera del Medio Oriente".
In conferenza stampa congiunta con Netanyahu dopo l'incontro tenutosi alla Casa Bianca, Trump ha presentato il suoi piano assicurando di voler rendere l'enclave martoriata dalla guerra "incredibile", rimuovendo bombe inesplose e macerie e riqualificandola sul piano economico. "Gli Stati Uniti prenderanno il controllo della Striscia di Gaza e ci lavoreranno. La possederemo", ha detto.
Il tycoon ha assicurato di avere il sostegno della "massima leadership" in Medio Oriente e ha aumentato la pressione su Egitto e Giordania per accogliere gli sfollati di Gaza, nonostante entrambi i paesi e i palestinesi avessero già respinto categoricamente l'ipotesi. Trump sostiene una "proprietà a lungo termine" di Gaza da parte degli Stati Uniti, che la renderebbe "la Riviera del Medio Oriente. Potrebbe essere qualcosa di magnifico".
Trump ha insistito sul fatto che i palestinesi “non hanno alternative” se non quella di lasciare il “grande cumulo di macerie” che è Gaza dopo oltre 15 mesi di bombardamenti israeliani volti a smantellare Hamas in risposta all'assalto del gruppo terroristico del 7 ottobre. Il presidente degli Stati Uniti ha quindi ribadito la sua convinzione che i palestinesi dovrebbero essere collocati in uno o più altri Paesi per "vivere in pace".
Da quando è tornato in carica, il tycoon ha insistito affinché Egitto e Giordania si offrissero di ospitare i palestinesi, ma i due Paesi hanno rifiutato categoricamente l'idea, sostenendo che ciò li destabilizzerebbe e che ai palestinesi dovrebbe essere permesso di rimanere nelle loro terre, proprio come agli israeliani.
Netanyahu ha mostrato apertura verso il piano di Trump, che potrebbe "cambiare la storia" e verso cui vale la pena "prestare attenzione". Il premier israeliano, giunto alla Casa Bianca per tenere colloqui sulla seconda fase della tregua Israele-Hamas, ha invece visto il focus dell'incontro spostato su un'iniziativa che potrebbe completamente trasformare lo status quo Medio Oriente. Trump, che ha anche fatto intendere di star ragionando su un possibile viaggio a Gaza, non sembra intenzionato a ricostruirla per i palestinesi. "Non dovrebbe passare attraverso un processo di ricostruzione e occupazione da parte delle stesse persone che hanno... vissuto lì e sono morte lì e hanno vissuto un'esistenza miserabile lì", ha detto.
I due leader avevano avuto momenti di tensione in passato, ma Netanyahu ha accolto il ritorno del tycoon alla Casa Bianca, dopo che i rapporti con Joe Biden erano stati messi in crisi dalla postura di Israele nel conflitto. Il leader israeliano non ha escluso un ritorno alle ostilità con Hamas o con gli altri nemici nella regione, tra cui Hezbollah e l'Iran in Libano. "Metteremo fine alla guerra vincendola", ha insistito Netanyahu, garantendo il ritorno di tutti gli ostaggi tenuti da Hamas.
Netanyahu ha anche espresso fiducia su un possibile accordo con la storica rivale regionale, l'Arabia Saudita, per normalizzare le relazioni. Ma dopo aver ascoltato il piano di Trump, Riad ha ribadito che non avrebbe formalizzato i legami con Israele senza la creazione di uno stato palestinese.
Israele e Hamas stanno iniziando a negoziare questa settimana i termini della seconda fase del cessate il fuoco a Gaza, che dovrebbe vedere il rilascio degli ostaggi ancora in vita in cambio della fine definitiva della guerra - cosa che probabilmente lascerebbe Hamas al potere, non rispettando l'impegno di Netanyahu di smantellare completamente le capacità militari e di governo del gruppo terroristico.
Pechino, 4 feb. (Adnkronos) - Pechino non resta ferma davanti alla decisione di Trump di porre dazi aggiuntivi del 10% sui prodotti cinesi importati negli Stati Uniti. Ma manda una risposta che, secondo molti osservatori, è "più simbolica" che altro. La rappresaglia cinese colpisce il settore dell'energia, delle auto, arriva con "contromisure" che prendono di mira singole aziende americane e con una stretta sulle esportazioni di metalli e metalloidi, oltre a un'indagine antitrust contro Google. Sembra l'inizio di un nuovo round della guerra commerciale tra le due potenze. Quella in cui, ripetono da tempo i cinesi, "non ci sono vincitori né vinti".
Il leader cinese Xi Jinping, che non fa mistero delle sue ambizioni di una Cina alla guida di un ordine mondiale alternativo, potrebbe vedere persino un'opportunità, evidenzia la Bbc, sottolineando come le contromisure cinesi, tutte mirate, siano limitate nella portata rispetto ai dazi decisi da Trump, come l'impatto sugli Usa possa essere limitato. Gli Stati Uniti sono il principale esportatore di Gnl al mondo, ma riguarda la Cina circa il 2,3% di queste esportazioni e il grosso delle importazioni di auto arriva da Europa e Giappone. Così, secondo la rete britannica, potrebbe trattarsi di un modo per guadagnare un po' di potere contrattuale in vista di eventuali colloqui, anche se esiste comunque il rischio di una guerra commerciale più vasta fatta di rappresaglie.
La rete britannica sottolinea come molto sia cambiato dalla prima Amministrazione Trump, come l'economia cinese non sia più dipendente dagli Stati Uniti, come era nel 2020, come Pechino abbia rafforzato gli accordi con gli 'amici' in Africa, in America Latina e nel Sudest asiatico. E, rimarca la Bbc, mentre le mosse di Trump seminano divisione, con la minaccia di colpire persino l'Ue con i dazi, la Cina vorrà apparire calma, stabile e forse anche un partner commerciale più attraente.
La risposta cinese ai nuovi dazi "è una mossa più che altro simbolica", secondo Louise Loo di Oxford Economics, che - come riporta il Wall Street Journal - ritiene probabile ulteriori round di dazi. La risposta cinese sembra voler tenere 'in panchina' "misure che potrebbero provocare un danno più importante agli scambi commerciali" tra le due potenze, scrive il New York Times. "Si tratta di una risposta relativamente limitata, che interessa non più del 30% delle esportazioni Usa in Cina", conviene Bert Hofman, con un passato alla Banca Mondiale e ora docente all'East Asian Institute della National University of Singapore. Anche perché, è il ragionamento, probabilmente i cinesi si tengono pronti poiché "questo potrebbe essere solo il primo passo dell'Amministrazione Trump".
In questo contesto, secondo Yun Sun, direttore del programma Cina dello Stimson Centre, con "la politica 'America First' di Trump", che "porterà sfide e minacce per tutti i Paesi nel mondo", dal "punto di vista della competizione strategica Usa-Cina, un peggioramento di leadership e credibilità statunitense andrà a vantaggio della Cina".
E, come dice alla Bbc John Delury, docente alla Yonsei University di Seul, "la combinazione di dazi contro i principali partner commerciali e il blocco degli aiuti all'estero mandano al Sud Globale e all'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico il messaggio che gli Usa non sono interessati alla collaborazione a livello internazionale". Così, "il messaggio di Xi sulla globalizzazione 'win-win' assume un significato completamente nuovo mentre l'America fa un passo indietro".
Tuttavia, evidenzia Chong Ja Ian di Carnegie China, "molti alleati e partner degli Usa, soprattutto nel Pacifico, hanno motivi per lavorare con Pechino, ma hanno anche ragione per essere prudenti". E per questo, osserva, "abbiamo visto avvicinarsi Giappone, Corea del Sud, Filippine e Australia". Ci sono i timori per l'assertività cinese nel Mar cinese meridionale, ma anche per Taiwan, isola di fatto indipendente che Pechino considera una "provincia ribelle" da "riunificare" e che è uno dei 'temi caldi' nei rapporti tra Washington e Pechino.
Roma, 4 feb. (Adnkronos) - Disagi in vista oggi in Lombardia per chi si sposta in treno. Dalle 3 di mercoledì 5 febbraio 2025 alle 2 di giovedì 6 il sindacato Orsa ha proclamato una giornata di sciopero che potrà generare ripercussioni al servizio Regionale, Suburbano, Aeroportuale e la Lunga Percorrenza di Trenord. Viaggeranno i treni con partenza prevista dopo le 6 e dopo le 18, con arrivo previsto entro le 9 ed entro le 21.
Nel caso di cancellazione dei treni del servizio aeroportuale, saranno istituiti bus senza fermate intermedie tra: Milano Cadorna e Malpensa Aeroporto per il Malpensa Express. Da Milano Cadorna gli autobus partiranno da via Paleocapa 1. Stabio e Malpensa Aeroporto per il collegamento aeroportuale S50 Malpensa Aeroporto – Stabio.
Disagi in vista anche per chi viaggia in aereo con lo sciopero del personale delle aziende di handling associate a Assohandlers indetto dalla Flai Trasporti e Servizi.
Cagliari, 04 feb. - (Adnkronos) - È morto il principe Karim Aga Khan, fu lui il 14 marzo del 1962 a fondare il Consorzio Costa Smeralda e portare al centro del mondo un angolo di Sardegna. "Non abbiamo parole. Solo una: grazie", è il commento ufficiale del Consorzio. L'annuncio ufficiale della scomparsa arriva dall'Aga Khan Development Network. "Sua Altezza il principe Karim Al-Hussaini, Aga Khan IV, 49° Imam ereditario dei musulmani sciiti ismailiti e diretto discendente del profeta Maometto (pace sia con lui), è deceduto pacificamente a Lisbona il 4 febbraio 2025, all'età di 88 anni, circondato dalla sua famiglia". A breve è previsto l'annuncio del suo successore.
"I leader e lo staff dell'Aga Khan Development Network porgono le nostre condoglianze alla famiglia di Sua Altezza e alla comunità ismailita di tutto il mondo - si legge in una nota -. Mentre onoriamo l'eredità del nostro fondatore, il principe Karim Aga Khan, continuiamo a lavorare con i nostri partner per migliorare la qualità della vita degli individui e delle comunità in tutto il mondo, come lui desiderava, indipendentemente dalle loro appartenenze religiose o origini".