La commissione giuridica dell’Europarlamento ha dato il via libera il 20 giugno scorso ad alcune, controverse, modifiche alla direttiva sul Digital Single Market (mercato unico digitale) proposta dalla Commissione europea nel 2016, che dovrebbe approdare in aula il prossimo 5 luglio per la definitiva approvazione. La norma ha due profili particolarmente critici: la creazione di un diritto secondario d’autore ancillare a danno degli aggregatori di notizie, per cui il semplice snippet o un link di sintesi possono violare il diritto d’autore. E lo “sdoganamento” di sistemi preventivi di controllo sui contenuti a carico di chiunque si affacci sulla rete, a beneficio dei titolari dei diritti d’autore.
La maggior parte dei cittadini italiani alla notizia dell’imminente approvazione del copyright avrà reagito probabilmente come fece l’ex presidente della Camera Gianfranco Fini, quando nel 2005, durante una festa popolare, gli venne chiesto di aiutare la popolazione oppressa dei Kaziri. Fini affermò di conoscere bene la situazione e mostrò comprensione per la lotta di liberazione dei Kaziri, fino a quando gli venne detto che si trattava di uno scherzo.
Eppure nella storia recente del copyright di Kaziri ve ne sono stati a bizzeffe.
Nessuno praticamente in Europa ed in Italia con l’eccezione di alcuni parlamentari che hanno combattuto una fiera battaglia – tra cui si collocano con certezza gli europarlamentari Isabella Adinolfi e Dario Tamburrano, nonché Marietje Schaake e la capofila della protesta Julia Reda – si è posto il problema della libertà della rete, nei tre anni che ci separano dalla proposta della Commissione Ue.
Il tema, molto importante, riguarda invece lo sviluppo presente e futuro della rete ed alcune questioni di carattere economico poco analizzate. In estrema sintesi, la questione ha a che fare con la libertà di espressione per quanto riguarda tutti noi e un discorso esclusivamente monetario per le entità economiche impegnate nella “lotta”.
Riassumendo all’osso si tratta di una questione di soldi che però ha impatti notevoli sullo sviluppo della rete prossima futura. Sotto la minaccia della Link tax, le major del diritto d’autore vogliono mettere le mani sui grandi tesori accumulati in questi anni dagli OTT (Over the top) grazie ad una attenta politica fiscale transnazionale e di delocalizzazione. Il ragionamento è semplice: se tu sei editore e non più piattaforma di scambio, devi controllare che il mio diritto d’autore sia protetto oppure devi pagare profumatamente per ottenere la messa in rete di qualsiasi contenuto. Dividere la torta vuol dire ottenere enormi risorse.
I big della rete, invece, non intendono rispondere per i contenuti immessi dai privati, cambiando le norme sulla irresponsabilità degli intermediari passivi e sul divieto generale di sorveglianza preventiva stabilito dalle norme in essere, e men che meno, intendono condividere integralmente i proventi delle attività pubblicitarie in rete.
In mezzo restano gli utenti, senza alcuna rete di protezione. Chi ha ragione?
Se guardiamo la questione dal lato di noi tutti utenti di Internet certamente ha ragione chi si preoccupa della libertà di espressione in rete. Ha ragione da quarto punto di vista per esempio il ministro del Lavoro Luigi Di Maio quando parla di un salto all’indietro di venti anni fa in caso di approvazione della norma con questa formulazione.
Se consideriamo la nascita delle piattaforme di scambio come Youtube, che hanno contribuito e contribuiscono alla creazione di un sapere condiviso, e proviamo ad immaginare l’applicazione di queste tecnologie di filtraggio che oggi si intendono avallare, ci rendiamo conto che Internet non sarebbe come oggi la conosciamo. Ancora, se gli inventori del linguaggio del World wide web avessero preteso, agli albori della nascita della rete, il diritto d’autore (o meglio un brevetto), forse staremmo ancora comunicando con i cellulari da dieci chili attaccati alla batteria della macchina.
Una legislazione troppo severa e troppo analogica appare in grado di sfavorire la rivoluzione di Internet del valore che si sta compiendo davanti ai nostri occhi: ovvero l’uso della tecnologia blockchain ed i connessi progressi in tema di democrazia diretta.
Un ultimo aspetto è da considerare: nelle battaglie epiche che si combattono a suon di lobby in tutti i settori a Bruxelles, ovvero la città che ha il maggior numero di lobbisti per metro quadrato, ci sono stati molti “pesci in barile”. Nessuno nel mondo delle lobby in Italia, diversamente dagli Stati Uniti, si è posto (e si pone) il problema dei finanziamenti, delle consulenze e dei benefici che sono sempre indiretti (non sia mai!) e che spesso prendono la via di paesi terzi, a beneficio di chi usa “la penna docile”, ovvero alcuni influencer, altri accademici, professionisti e forse anche soggetti istituzionali dotati di vari cappelli da usare alla bisogna.
Alcuni di loro, all’insaputa dei cittadini, sembrano addirittura comparire contemporaneamente in tutte le squadre relative alle contese normative, su tutti i tavoli, da una parte e dall’altra.
Tra i primi provvedimenti da varare per evitare interferenze vi sarebbe quello di rendere pubblici i finanziamenti privati di chi, singolo o associazione ed ente, influenza i nostri giovani attraverso le istituzioni accademiche o attraverso l’esercizio dell’informazione come influencer, imponendo la pubblicazione di bilanci, dei contratti (anche indiretti) ed i nomi dei finanziatori delle istituzioni private nonché la dichiarazione pubblica di quali committenti negli ultimi tre anni abbiano sostenuto professionalmente i privati o le associazioni.
Soprattutto se questo può impattare anche con realtà istituzionali.
Sono convinto che se il lettore sapesse veramente cosa e chi c’è dietro alle battaglie sulla libertà, forse preferirebbe rispondere in tutta onestà di non sapere chi siano veramente i kaziri, scappando poi a gambe levate.