È sicuramente tra le più grosse confische di beni legata a reati contro la pubblica amministrazione. Forse addirittura la più ricca. A ordinarla è stata la la sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo che ha sottratto definitivamente circa 70 milioni di euro al manager Fausto Giacchetto. Il provvedimento, contro il quale può essere presentato ricorso, è previsto dalla legge che ha esteso le misure di prevenzione, applicate normalmente ai mafiosi e a coloro che sono ritenuti vicini a Cosa nostra, anche a chi si rende colpevole di associazione a delinquere finalizzata a reati contro la pubblica amministrazione, come la corruzione.
È il caso di Giacchetto considerato l’ideatore di un sistema che dal 2006 in poi è riuscito ad appropriarsi di finanziamenti regionali ed europei per centinaia di milioni di euro. Tutto grazie alla corruzione seriale. Per questo motivo adesso è scattata la confisca record che, però, non colpisce tutti i beni che erano stati sequestrati in un primo momento: restano in possesso alla famiglia Giacchetto 13 appartamenti e una serie di gioielli e orologi di valore, più conti e titoli.
“Appropriazione di denaro pubblico” – Il manager è stato condannato a otto anni e un mese e alla vigilanza speciale per tre anni, nel processo ribattezzato Ciapi, da nome dell’ente di formazione della Regione Siciliana che “sarebbe stato utilizzato per drenare risorse pubbliche”. Sono le parole del Tribunale di prevenzione, presieduto da Raffale Malizia, a latere Vincenzo Liotta e il giudice relatore Simona Di Maida, che ha accolto le tesi del pm Pierangelo Padova. A proposito di Giacchetto, i giudici scrivono che “è emerso un sistema ben collaudato, dal medesimo ideato, finalizzato all’appropriazione di denaro pubblico grazie a falsi, truffe, formazioni di fatture per operazioni inesistenti, corruzioni, associazione per delinquere. Il suo era monopolio sostanziale di denaro destinato a propagandare piani di formazione gestiti dal Ciapi, o a fare pubblicità, con l’ affidamento di forniture a società riconducibili allo stesso manager o comunque compiacenti”.
Lo scandalo Ciapi – La vicenda è uno dei più grossi scandali politici che ha fatto tremare la Regione Siciliana negli ultimi anni. L’anello principale della catena è il Ciapi, un ente che dovrebbe formare disoccupati e trovargli un lavoro e che per questo motivo era stato finanziato dalla Regione con circa 80 milioni. Degli oltre 600 disoccupati da formare però nessuno riuscirà mai a trovare un impiego. Il motivo? Il Ciapi è il “bancomat” personale di Giacchetto, che ne gestiva ufficialmente la comunicazione, ma che in realtà per gli inquirenti ne era il “vero e proprio regista”. Da una parte, quindi, il pubblicitario gestiva i fondi dell’ente come fossero cosa sua, tramite una serie di società a lui riconducibili. Dall’altra si dedicava alla sua attività di imprenditore, vincendo appalti e garantendosi appoggi, grazie proprio a regali a sei cifre con i quali omaggia politici e amministratori pubblici.
La storia dell’indagine – L’indagine coordinata dall’allora procuratore aggiunto Leonardo Agueci e dai pm Maurizio Agnello, Gaetano Paci, Sergio Demontis,era partita dai cosiddetti “Grandi eventi” allegramente finanziati dall’assessorato regionale al Turismo. Ma aveva subito una accelerazione dopo la segnalazione dell‘Olaf, l’ufficio antifrode di Bruxelles. A quel punto l’inchiesta si è allargata scoperchiando un vero e proprio “sistema illecito criminale”. Alla fine, oltre al manager erano stati condannati anche l’ex presidente dell’Ente formativo, Francesco Riggio (ex deputato del Pd), e l’ex dirigente dell’Agenzia regionale per l’impiego, Rino Lo Nigro.