Uno dei collaboratori più importanti di Cosa nostra è stato ascoltato dai pm di Catania Antonino Fanara e Agata Santonocito, come testimone sui presunti rapporti tra l'editore e Cosa nostra, nel processo che vede imputato il patron del quotidiano La Sicilia - e di una serie di televisioni locali - per concorso esterno in associazione mafiosa
“Mario Ciancio Sanfilippo era un pezzo grosso, che aveva le mani in pasta ovunque, paragonato a Vito Ciancimino a Palermo”. Si sente solo la voce con marcato accento palermitano, dietro il separé che protegge l’identità di Francesco Di Carlo, uno dei pentiti più importanti di Cosa nostra. L’ex capomafia di Altofonte è stato ascoltato dai pm di Catania Antonino Fanara e Agata Santonocito, come testimone sui presunti rapporti tra Mario Ciancio Sanfilippo e Cosa nostra, nel processo che vede imputato l’editore del quotidiano La Sicilia – e di una serie di televisioni locali – per concorso esterno in associazione mafiosa.
Nel corso dell’audizione durata circa due ore, Di Carlo ha raccontato il suo lungo curriculum criminale. Dagli albori dell’affiliazione fino agli ultimi anni vissuti a Londra. E il rapporto con Totò Riina e Luciano Liggio, l’amicizia con i Cuntrera e Caruana, i problemi a Catania tra il boss etneo Pippo Calderone, detto ‘cannarozzu d’argento’, e gli emergenti Nitto Santapaola e Alfio Ferlito. I magistrati, però, sono molto più interessati ai racconti che il pentito ha riferito sugli intrecci tra mafia ed economia negli anni ’70 e ’80. “Graci, Costanzo, Rendo, Finocchiaro erano tutti imprenditori vicini a Cosa nostra“, spiega Di Carlo riferendosi a quelli che Pippo Fava definiva “i quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa”.”Ma c’era anche un altro imprenditore che abbracciava il mondo della politica e delle autorità, Ciaccio”, ha aggiunto il pentito che per tutta la sua deposizione si è riferito a Ciancio chiamandolo, erroneamente, “Ciaccio“. “Non l’ho mai conosciuto, so che si interessava un po’ di tutto, di un giornale e di altre attività, Nitto mi raccontava dei suoi rapporti diretti con Ciancio”. La mafia catanese avrebbe contattato l’editore, a capo del più grosso gruppo imprenditoriale dell’informazione e pubblicità della Sicilia Orientale, in molteplici occasioni. “Si rivolgevano a Ciancio per tante cose, per una diffida, un problema in Tribunale, in generale per situazioni giudiziarie”.
Per questo motivo, Di Carlo ricorda un vecchio episodio dell’agosto 1980. “Mi ero recato a Catania, perché dovevo incontrare Nitto, ma arrivato in città si presentò suo fratello Salvatore dicendomi che lo avevano arrestato, ma che lo avrebbero rilasciato nel giro di pochi giorni perché erano intervenuti degli amici. Santapaola insieme a Franco Romeo e ‘Ciuzzu u firraru’ (cioè Francesco Mangion, ndr) si stava recando da Mariano Agate, capo mandamento di Mazara del Vallo, un corleonese di ferro”, spiega Di Carlo. Gli uomini d’onore avrebbero dovuto parlare di “affari”, ma vennero fermati a un posto di blocco, e dato che nel cofano trasportavano dei fucili, vennero accusati di essere gli esecutori dell’omicidio del sindaco di Castelvetrano, Vito Lipari, consumatosi in quelle ore. “Santapaola mi raccontò – continua Di Carlo – che ad intervenire era stato un capitano, tale Speranza, che era diventato di casa da Nitto perché gli aveva regalato delle macchine. In quell’occasione, anche Ciancio era intervenuto con le autorità, insieme a Costanzo. Questi imprenditori li avrebbero aiutati, adoperandosi in diversi modi”. Di Carlo svela anche un secondo episodio, mai raccontato. “Qualche anno prima i fatti di Castelvetrano, dei pasticceri vicini a Cosa nostra di Palermo e che avevano un bar all’aeroporto, erano interessati a gestire anche quello di Catania. Per l’occasione è stato interpellato Calderone, che si rivolse a Ciancio, e quest’ultimo li aiutò”.
Le dichiarazioni del Di Carlo si aggiungono a quelli di altri collaboratori di giustizia ascoltati dai magistrati catanesi nelle precedenti udienze. Tra loro c’è Giuseppe Catalano, un tempo uomo del clan Laudani, che ha riferito del furto “da un miliardo di lire” nella villa di Ciancio avvenuto nel marzo 1993. Catalano racconta che l’editore aveva ospitato Lady Diana, per questo sapevano di poter trovare “cose importanti” nella sua abitazione. Nei giorni successivi, il quotidiano La Sicilia pubblica un breve articolo in cui si parla del furto e di una possibile “ricompensa da 50 milioni”, a “chi fornirà notizie utili per recuperare gli oggetti”. La famiglia Santapaola è una delle prime ad attivarsi nella ricerca del bottino. Aldo Ercolano, nipote prediletto di Nitto, incontra di persona Catalano spiegandogli che “Ciancio era un loro amico e non si doveva toccare più”, e imponendogli di restituire “la merce”. In cambio, Catalano ricevette “una busta” con circa “20 milioni”, che avrebbe diviso con gli altri autori del furto.
“Mario Ciancio è n’amicu, ci si po parrari (un amico, si ci può parlare, ndr)”, ha raccontato in udienza Giuseppe Ferrone, un tempo vicino a Calderone e killer di Carmela Minniti, moglie del Santapaola. Il pentito ha affermato che mentre a Catania “c’era un omicidio al giorno”, sul quotidiano La Sicilia non si “parlava di mafia”. Il processo a Ciancio è stato aggiornato al prossimo 13 novembre, quando i magistrati ascolteranno il collaboratore palermitano Giovanni Brusca, e i catanesi Santo La Causa e Gaetano d’Aquino.
Dopo un lunghissimo iter giudiziario, il potente imprenditore siciliano era stato rinviato a giudizio nel giugno del 2017. La procura di Catania aveva aperto l’indagine a carico di Ciancio nel 2007, ma nel 2012 ne aveva chiesto l’archiviazione. Richiesta bocciata dal gup Luigi Barone, che aveva disposto la trasmissione degli atti ai pm. Gli inquirenti avevano a quel punto chiesto il rinvio a giudizio dell’editore, raccogliendo il pollice verso da parte del gup Bernabò Distefano nel dicembre del 2015. Una decisione che aveva sollevato parecchie polemiche – con il presidente dell’ufficio gip di Catania, Nunzio Salpietro, che aveva preso le distanze dalla sentenza – visto che nelle sue motivazioni Distefano faceva a pezzi il reato di concorso esterno definito come “una figura che si potrebbe definire quasi idealizzata nell’ambito di un illecito penale così grave per la collettività”. Un giudizio completamente ribaltato dalla Suprema Corte, che ha accolto l’appello della procura contro il proscioglimento di Ciancio. Secondo gli ermellini “non si sorregge in alcun modo la conclusione della non configurabilità della fattispecie del concorso esterno nel reato associativo” che ha di principio “una funzione estensiva dell’ordinamento penale, che porta a coprire anche fatti altrimenti non punibili”. È per questo motivo che dodici mesi fa un nuovo gup – il terzo a occuparsi della vicenda Ciancio in dieci anni di indagini – ha ordinato il processo per l’editore catanese, ormai 86enne.