A proposito di lavoro nei giorni festivi e di apertura h24, 365 giorni l’anno, dei centri commerciali. Domenica pomeriggio, per caso, di ritorno da un’appassionante due-giorni in Basilicata tra le Dolomiti lucane e Matera che vi racconterò prossimamente, mi sono fermato, per la prima volta in vita mia, a Foggia. I cartelli pubblicitari indicavano il concerto, nel parcheggio antistante il più grande shopping mall della zona, di tal “Biondo”. Mosso a febbrile curiosità, mi sono diretto verso l’epicentro del così strombazzato evento.

Fuori c’erano 3 o 4 mila fan del Biondo nazionale. Dentro questo centro commerciale sperduto nel nulla, almeno il doppio o il triplo. Si faceva fatica persino a camminare tale la concentrazione di natura umana. Donne, anziani, giovanissimi, bambini già irreversibilmente non più predisposti alla bellezza quanto a un consumismo über alles. Certo, erano appena cominciati i saldi. Ma era domenica. Possibile che mezza città di Foggia (ma lo stesso resistibile spettacolo sarà andato in onda, contemporaneamente, in varie parti d’Italia) non avesse di meglio da fare, di domenica e d’estate, che andare a stressarsi e tamponarsi senza requie al chiuso asfittico e artificiale di un centro commerciale? E non è stata certo tutta colpa di Biondo.

Siamo tutti un po’ lavoratori e un po’ consumatori a seconda delle circostanze. Ma cosa ne sappiamo di preciso, noi, della sofferenza che può annidarsi dietro le quinte dei registratori di cassa, sotto la pelle rutilante della grande distribuzione organizzata? Turni massacranti, straordinari sottopagati o non pagati per niente, ricatti, licenziamenti e abusi di ogni tipo nell’era post-articolo 18. Come se correre a comprarsi un etto di prosciutto cotto di domenica alle 20.30 corrispondesse alla fruizione di un alto diritto costituzionale, di un irrinunciabile servizio di pubblica utilità.

Lavorare di giorno e di notte, le domeniche, a Pasqua e a Natale, il 25 aprile e il primo maggio, a Ferragosto e a Capodanno ma con la stessa busta paga (quando va bene) e lo stesso numero di occupati del passato. Introdotta nel gennaio del 2012, la liberalizzazione degli orari del commercio del governo Monti non ha prodotto nessun risultato associabile a una qualche idea di progresso.

In teoria non sarebbe obbligatorio lavorare sempre. A cominciare dalla domenica. Lo hanno confermato diverse sentenze della magistratura. “Lavorare nei festivi infrasettimanali non è un obbligo nemmeno se è scritto sul contratto”. Ma andateglielo a spiegare voi ai grandi “capitani coraggiosi” del nostro grande commercio e delle nostre grandi aziende, dopo anni di deregulation selvaggia e tre estati dopo il Jobs Act.

“L’ambizione è che i nostri punti vendita diventi­no luoghi di vita, dove le persone si incontrano, si parlano, sul modello di un mercato rionale. Il progetto h24 va proprio in questo senso” ha affermato il direttore vendite italiano di Carrefour, Grégoire Kaufman, che se ne intende di lavoro perenne, diurno o notturno che sia. Nel libro 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno, Jonathan Crary ha scritto che ormai pure il sonno, l’u­nica condizione naturale sopravvissuta al capitalismo, è in via di estinzione. I centri commerciali aperti senza soluzione di continuità sarebbero, insomma, un’”evoluzione dell’ordine naturale delle cose”.

Io, nel mio piccolo, a questo argomento ho dedicato un capitolo intero del mio recente libro Italian job. Viaggio nel cuore nero del mercato del lavoro (Sperling&Kupfer), che vi consiglio di leggere perché contiene, approfondisce e precede (è uscito a metà febbraio) buona parte degli aspetti più importanti del Decreto Dignità. Da anni è ferma, in Senato, una legge che dovrebbe mettere ordine nella giungla disumana del lavoro nei giorni festivi. Il ministro e vicepremier Luigi Di Maio ha annunciato di volere finalmente intervenire in materia. Mi rivolgo direttamente a lui: lo faccia al più presto perché è una questione di civiltà.

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