Secondo gli avvocati dell'uomo “consentire a un giurato di votare una condanna a morte sulla base di sentimenti e stereotipi anti-gay viola incontestabilmente il Sesto e il Quattordicesimo Emendamento” (il diritto a un giusto processo e all’eguaglianza di protezione davanti alla legge). Ma la Corte Suprema ha rifiutato di considerare la vicenda
Non c’è alcun dubbio che Charles Rhines sia colpevole. Non c’è alcun dubbio che il suo crimine sia stato particolarmente efferato. Quello che è in dubbio è che Charles Rhines possa essere stato condannato a morte non per il suo crimine, ma perché è gay. Dopo un appello alla Corte Suprema, che ha comunque rifiutato di considerare il caso, la sorte di Rhines pare ormai decisa. Eppure la storia di questo condannato a morte del South Dakota continua a far discutere e solleva nuove polemiche sulla legittimità della pena capitale negli Stati Uniti.
Nevicava pesante la notte dell’8 marzo 1992 quando Charles Rhines riuscì a introdursi al “Dig’ Em Donuts di Rapid City, Soth Dakota – da dove era stato licenziato ma di cui aveva conservato una chiave – per rubare tutto il contante in cassa. Fu sorpreso da un impiegato che conosceva, Donnivan Schaeffer, un ragazzo di 22 anni che faceva il turno di notte. Rhines colpì Schaeffer con almeno due coltellate. Poi, mentre il ragazzo lo implorava di chiamare un’ambulanza, lo trascinò in un ripostiglio, lo fece inginocchiare e gli conficcò il coltello nel cranio. La madre, che parlò al processo, disse che Donnivan era un ragazzo pieno di speranze, che voleva finire l’università e sposarsi e che “noi, la sua famiglia, potremo solo sognare il futuro che avrebbe avuto”.
Rhines fu catturato poco dopo, a Seattle. Non ci volle molto a farlo confessare. L’agente che raccolse la sua deposizione lo ricorda calmo, preciso nella descrizione dei fatti. A un certo punto, durante la confessione, Rhines esplose in una risata rumorosissima, “tre volte la sua voce normale”, ha ricordato l’agente. L’efferatezza del crimine, unita alla freddezza con cui l’assassino lo descrisse, furono decisivi nella sentenza capitale che una giuria dello Stato del South Dakota applicò nel 1993, un anno dopo l’omicidio. Rhines sarebbe dovuto morire per iniezione letale. I giurati considerarono che Rhines era l’assassinio, al di là di ogni ragionevole dubbio. E che in lui non c’era alcuna espressione di rimorso o pentimento.
Venticinque anni dopo quella sentenza, Charles Rhines è ancora vivo. Ha cinquantasette anni, è in prigione, tenuto in isolamento tutto il giorno, con un’ora soltanto di aria, sempre controllato a vista. Chi lo ha frequentato in questi anni dice che non è cambiato. Doug Weber, l’uomo che in prigione presiede alle condanne a morte, dice che Rhines ha una personalità manipolatrice; è “un essere estremamente intelligente ma anche estremamente pericoloso”. Lui, Rhines, è riuscito finora a scampare l’iniezione letale grazie a una serie di appelli – ricorrendo per esempio alla tesi che all’epoca la sua difesa si mostrò particolarmente inetta. Per il resto, Rhines non nega il crimine ma lo inquadra in una vita – la sua – segnata da una profonda solitudine e instabilità mentale; ultimo di quattro figli, non gli fu permesso di frequentare uno psicologo perché la madre era contraria, temendo lo stigma sociale. Oggi Rhines dice di essere dispiaciuto per quanto fatto, ma anche che la sua morte non cambierebbe nulla e che “crimini bn peggiori del mio non sono stati puniti con la pena di morte”.
Sembra una storia molto classica, di quelle che, di ricorso in ricorso, conducono inevitabilmente nella stanza della morte. E invece nel 2016 succede qualcosa di inaspettato. Il nuovo avvocato, che prende in mano il caso di Rhines, scopre una serie di elementi clamorosi. Anzitutto, durante la camera di consiglio finale, i giurati inviarono una nota al giudice, con alcune domande che dovevano chiarire i loro dubbi. Tre soprattutto appaiono rivelatrici. In una, i giurati chiedevano se Rhines, nel caso fosse stato condannato all’ergastolo, sarebbe stato detenuto insieme alla generale popolazione carceraria. Altra domanda riguardava la possibilità che Rhines, in prigione, potesse creare attorno a sé una corte di giovani adepti e seguaci. Altra domanda ancora aveva a che fare con le condizioni di carcerazione di Rhines. Sarebbe stato detenuto in una cella da solo? Avrebbe avuto un compagno di cella?
Il giudice inviò, come risposta, una nota in cui precisava che tutte le possibili questioni erano già state chiarite nelle disposizioni consegnate alla giuria prima che questa si riunisse. In altre parole, il giudice non rispose. Chiaro il suo imbarazzo, di fronte a domande che rivelavano un elemento molto chiaro e altrettanto delicato. Durante il processo era emerso che Rhines era gay. I giurati, con le loro domande, volevano sincerarsi se a Rhines, omosessuale, sarebbe stato consentito di vivere insieme ad altri uomini. Visionata la nota, la difesa di Rhines è partita alla ricerca dei vecchi giurati, ottenendone testimonianze particolarmente significative. Un giurato ha spiegato che “tra di noi ci fu molta discussione sull’omosessualità” di Rhines. Un altro ha ricordato che “tutti sapevano che era omosessuale e pensavano che non gli doveva essere concesso di trascorrere la sua vita in prigione con altri uomini”. Un altro ancora ha riferito di aver sentito un collega giurato affermare che “spedirlo in galera equivarrebbe a mandarlo dove vuole andare”.
E’ stato gioco facile, per l’attuale difesa di Rhines, concludere che l’omofobia, “il pregiudizio anti-gay ha giocato un ruolo importante in camera di consiglio”. Rhines sarebbe stato condannato a morte perché, se condannato all’ergastolo, avrebbe potuto godere della compagnia di altri uomini, avrebbe potuto provare piacere e non pena, si sarebbe circondato di giovani uomini pronti a vedere in lui un leader. La difesa ha anche ricordato una sentenza della Corte Suprema del 2017, che dice che una persona deve essere condannata “per quello che fa, non per quello che è” (la Corte si riferiva al caso di giurati che in camera di consiglio avevano espresso giudizi razzisti contro gli ispanici). Di qui la conclusione degli avvocati di Rhines, secondo cui “consentire a un giurato di votare una condanna a morte sulla base di sentimenti e stereotipi anti-gay viola incontestabilmente il Sesto e il Quattordicesimo Emendamento” (il diritto a un giusto processo e all’eguaglianza di protezione davanti alla legge). E’ una strategia che gli avvocati di Rhines non hanno potuto mettere alla prova. La Corte Suprema ha rifiutato di considerare la vicenda (come peraltro fa nella stragrande maggioranza dei casi in cui è in discussione la pena di morte). Rhines resta in carcere, in attesa della ormai sempre più probabile esecuzione. Il dubbio non è però destinato a dissolversi con l’iniezione letale. Charles Rhines è stato condannato a morte perché omosessuale?