“Il dottore mi diagnosticò l’Hiv, contratto per colpa di un ago infetto. Le aspettative di sopravvivenza erano esigue. Volevo morire il prima possibile.” Federica ha 48 anni e una figlia di 25, una famiglia benestante alle spalle che non le ha mai fatto mancare nulla. La diagnosi di Hiv per lei arriva al culmine di una vita trascorsa tra ribellione verso i genitori, quelle che si potrebbero chiamare cattive compagnie e la dipendenza dalla droga, ed è come un fulmine a ciel sereno. Nel suo passato un fidanzato che quando aveva 16 anni la picchiava tanto da farle perdere la bimba che aspettava, un altro che spacciava droga, e colleghe che la introducono all’uso dell’eroina iniettata in vena. Poi la depressione, le rapine, un andirivieni tra carcere e comunità, fino alla decisione di disintossicarsi in Portogallo per accontentare i genitori. “Il problema però era dentro di me. Fuggii dopo sei mesi verso l’Italia con un coinquilino sardo, del quale rimasi incinta. Stavolta volevo tutelare la bambina: stop all’eroina. Nel 1993, nacque perfettamente sana”. Allora tutto sembrava potersi risolvere, ma il baratro l’aspettava dietro l’angolo, proprio con la diagnosi di sieropositività. “Sapevo che si trattava di una malattia mortale, avevo paura. Il pensiero di mia figlia mi dava la forza per non arrendermi”.
Quella di Federica è una delle tante storie dei malati di Hiv e Aids che oggi cercano un riscatto per le loro vite. A dar voce ad alcuni di loro è Thomas Trenchi, giornalista di Fiorenzuola (Piacenza) che ha raccolto nel libro La Pellegrina le esperienze dei pazienti della casa accoglienza Don Venturini detta “La Pellegrina”, fondata venticinque anni fa alle porte di Piacenza dalla Caritas diocesana e affidata all’associazione La Ricerca. “Il problema dell’Aids esiste anche nel 2018, malgrado non se ne parli più” spiega l’autore del libro pubblicato da Papero Editore. “Fino a 15-20 anni fa i malati si nascondevano, subivano come una condanna la diagnosi. Oggi hanno voglia di esporsi, ma sembra che l’opinione pubblica sia disinteressata”. Eppure di Aids ci si continua ad ammalare e si continua a morire. Certo nel frattempo la ricerca ha fatto progressi e le aspettative di vita per un contagiato si sono notevolmente allungate. “Se scopri in tempo di essere sieropositivo e ti curi, se non hai problemi particolari, puoi fare una vita normale. – continua Trenchi – Ma è necessario fare prevenzione e i limiti sono ancora tanti. I test Hiv per esempio necessitano di autorizzazione e i medici di famiglia non li propongono tra gli esami di routine, l’informazione è insufficiente, come lo sono le campagne di prevenzione”.
I dati fotografano una situazione ancora preoccupante sul contagio. Basti pensare ai numeri di Piacenza, città di cui si è occupato Trenchi nel suo libro: “Sono circa 700 – si legge – i pazienti con infezione da Hiv che accedono almeno una volta all’anno nel reparto malattie infettive dell’ospedale di Piacenza. Nel 2017, sono stati 608 quelli in terapia antiretrovirale, di cui 431 maschi e 177 femmine, con un’età media di 47 anni. Vengono inoltre rilevate circa 120 persone viventi nel piacentino con diagnosi di Aids.” Un quadro solo parziale, ma che offre uno spaccato di quelle che potrebbero essere le cifre a livello nazionale.
Alla Pellegrina i pazienti vivono in comunità ma ogni giorno escono e incontrano la cittadinanza, seguiti ognuno nel proprio percorso individuale dagli operatori e dai volontari che gravitano intorno alla casa accoglienza. “Per loro che hanno avuto passati e stili di vita molto travagliati – chiarisce l’autore – recuperare pezzi di quotidianità come il semplice fare la spesa, andare al bar, utilizzare il cellulare o la tv sono passi molto importanti”.
Hiv e Aids, come si legge tra le righe delle persone che si confessano nel libro, sono solo la punta di un iceberg che è la tossicodipendenza, in grado di travolgere ricchi e poveri, esistenze disagiate o senza alcun apparente problema. Come Federica, che nel 2015 dopo altre cadute nel mondo della droga arriva alla Pellegrina, ci sono Pietro che è nonno e si vergogna quasi di parlare del suo passato, o Mauro che ricorda il terrore del periodo dopo la diagnosi, quando nel suo paese tutti vennero a sapere della sua malattia: “Temevo di sfiorare il sangue di qualcun altro, non volevo attaccare l’Aids. Mi ritenevo un uomo da afferrare con le pinze”. Oppure Yvon, che non ce l’ha fatta ed è morto di polmonite nel 2017, lasciando agli amici della comunità le memorie della sua vita e i suoi moniti scritti su fogli: “Ricordatevi anche di dare ascolto ai più vecchi, che sanno ciò che vi dicono perché ci sono già passati. Ascoltate sempre i genitori e abbiate coraggio, coraggio di diventare individui”.
“Il virus dell’Hiv è democratico, non fa differenze sociali – aggiunge Trenchi – Ascoltando le storie dei pazienti, mi sono reso conto della voglia di riscatto che hanno queste persone soprattutto nei confronti di una vita passata. Hanno voglia di raccontarsi, di farsi conoscere”. Lo dimostrano anche le strette di mano vigorose con cui accolgono chi si avvicina loro, segno del superamento del confine dal “reparto intoccabili” al mondo reale, come spiega anche una delle frasi che l’autore più spesso si è sentito ripetere durante i colloqui e le interviste con i pazienti: “A causa dell’Aids hanno smesso di considerarmi una persona”.
A differenza del passato però, la morte non è l’unica destinazione di chi deve convivere con una diagnosi, e alla Pellegrina adesso gli ospiti “vengono guidati dignitosamente alla vita.” Anche Federica, dopo una vita tra alti e bassi, ha trovato qui, come tanti altri, la sua dimensione: “È cambiato il modo di guardare il mondo, di interagire con le persone, di fidarmi, di essere sincera, di dialogare e di ascoltare. Di vivere, perché la vita è bella e vale la pena di essere vissuta, anche con un handicap”.