di Eugenio D’Auria*

Il complesso quadro delle relazioni italo-libiche si sta arricchendo di elementi di particolare rilievo a seguito degli scambi di visite di alto profilo intervenuti negli ultimi giorni. È del tutto prematuro provare a fare un bilancio dei risultati ottenuti ma si può peraltro cercare di delineare quale sarà il percorso che il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte e i ministri più interessati alle tematiche libiche intendono avviare.

Sembra che a Roma ci si stia rendendo conto che il rapporto con Tripoli non può limitarsi al sostegno alla Guardia costiera o alla formazione di unità preposte al controllo dei confini meridionali (oltre duemila chilometri) del Paese. Il recente intervento del ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, e le indicazioni circa la volontà di riprendere la collaborazione secondo il Trattato Berlusconi-Gheddafi del 2008, trovano origine proprio in tali considerazioni.

Il Trattato fu considerato all’epoca come un’iniziativa voluta da due leader desiderosi di mostrare alle rispettive opinioni pubbliche la loro capacità di chiudere un contenzioso storico, caratterizzato dall’alternarsi di fasi di grandi intese e profondi contrasti. In effetti il percorso che aveva portato alla stretta di mano era stato molto lungo e tortuoso e risaliva agli anni 70, subito dopo l’arrivo di Gheddafi al potere. Il giovane colonnello libico era riuscito infatti a rinsaldare la sua leadership costruendo intorno al rapporto con la vecchia potenza coloniale una storia nazionale che gli aveva permesso di porre in secondo piano la frammentazione tribale della società libica. L’espulsione dei cittadini italiani fu una misura decisa dal Rais per rafforzare i sentimenti di rivincita di una popolazione che, ad eccezione dell’epopea di Omar Al Moukthar in Cirenaica, non aveva vissuto un’esperienza di contrapposizione violenta agli occupanti dopo la pacificazione imposta da Graziani con la forza delle armi.

Il dossier italo-libico era formato da un insieme di problematiche che consentiva a Gheddafi di scegliere di volta in volta i tempi e le azioni a lui più favorevoli: l’indennizzo per l’esproprio dei beni degli italiani espulsi, i crediti insoluti vantati dalle nostre imprese, i danni di guerra, le vittime delle famiglie libiche colpite dalla repressione di Graziani, dai campi minati della II guerra mondiale e dalla deportazione in Italia dei capi famiglia. A Roma sembrava impossibile trovare una soluzione soddisfacente per ritornare ad un rapporto normale con Tripoli; anche perché l’alternarsi frequente dei nostri governi facilitava vieppiù il gioco di Gheddafi che aumentava le proprie richieste ben conoscendo quanto fosse prioritario per i suoi interlocutori italiani assicurare il flusso delle risorse energetiche libiche.

Un punto di equilibrio fu infine trovato grazie alle assicurazioni di Giulio Andreotti circa la volontà italiana di compiere un gesto simbolico a favore delle popolazioni libiche: a condizione che fosse ben chiaro come tale gesto non fosse un indennizzo per i danni di guerra, regolati con un’apposita intesa intervenuta con il regime di Re Idriss. Da tale punto di partenza si sviluppò quindi la ricerca per individuare il gesto simbolico, capace di contemperare le pretese di Gheddafi e le esigenze italiane di contenere entro limiti ragionevoli le risorse da impegnare nell’iniziativa.

A Tripoli non si perse l’occasione di predisporre dei dossier particolarmente impegnativi (per le casse italiane): la scelta era tra un fantasmagorico progetto di rete ferroviaria (linea litoranea con due diramazioni verso il Sud) e l’altrettanto impegnativa realizzazione di un’autostrada di collegamento fra il confine con la Tunisia e quello con l’Egitto (circa 1700 chilometri). Su tali basi si poggia quindi il Trattato del 2008, che arrivò anche ad individuare i meccanismi di finanziamento – di durata ventennale – dell’opera ed a predisporre un quadro di iniziative mirate a favorire le imprese italiane nei progetti di sviluppo dell’economia libica. Il nostro governo dovrà quindi riprendere tale complesso dossier, da negoziare con una controparte libica non ancora pienamente definita visto il perdurare della contrapposizione fra Serraji ed Haftar.

La sfida appare molto impegnativa ma non impossibile; a condizione che le componenti italiane interessate all’intesa siano consapevoli della posta in gioco e dell’esigenza di un gioco di squadra nel quale noi, purtroppo non eccelliamo. E’ forse proprio da tale constatazione che potrà partire il presidente Giuseppe Conte per far emergere il ruolo di coordinamento ed impulso proprio di Palazzo Chigi: predisporre un progetto multisettoriale intorno al quale far convergere i principali dicasteri ed alcuni attori non secondari (Eni, ad esempio) potrebbe costituire un modello innovativo di operare seguendo le linee di trasparenza e leale collaborazione fra gli organi dello Stato spesso richiamate dai vertici della coalizione di governo come simbolo di un nuovo modo di amministrare la cosa pubblica.

Sarebbe un eccellente esempio di un aiuto “a casa loro” perché la stabilizzazione della Libia consentirebbe di controllare meglio i flussi migratori e potrebbe innescare uno sviluppo capace di trovare occupazione in Libia ai derelitti provenienti dall’Africa saheliana, come ai tempi di Gheddafi Padre dell’Unione Africana.

*Già ambasciatore in Arabia Saudita

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