Libri antichi per oltre 40mila euro, penne Mont Blanc, quadri, cesti natalizi con i prodotti del territorio. Tutto sul conto del gruppo del Pdl al consiglio regionale della Sardegna. Ora per quelle spese non in linea con le finalità istituzionali dei fondi al gruppo consiliare è stato condannato a 5 anni e mezzo di reclusione l’ex consigliere regionale di centrodestra Mario Diana, ex capogruppo del Popolo delle Libertà e di Alleanza Nazionale. Il pm Marco Cocco – che al termine della requisitoria aveva chiesto una pena di 8 anni – ha messo insieme un conto da 200mila euro, che sale a 600mila euro se si sommano le spese effettuate dai consiglieri regionali dei gruppi che presiedeva con funzione di “cassiere“. A lui veniva presentata la lista delle necessità e dei desideri, da lui arrivavano le autorizzazioni. I fatti risalgono alla XIV legislatura, dal 2009 al 2012, entrati in questo secondo filone investigativo. La prima inchiesta in assoluto in Italia riguardava invece la legislatura precedente, la XIII, dal 2004 al 2009: 90 i consiglieri coinvolti, di partiti di centrodestra e centrosinistra. I 5 anni e mezzo decisi per Diana sono la pena più alta pronunciata dai giudici per i vari filoni sulle spese pazze in Sardegna.
A tutti è stato contestato lo stesso comportamento: i fondi ai gruppi, non rendicontati da pezze giustificative, venivano interpretati e utilizzati come una specie di “paghetta” da aggiungere all’indennità. Questo secondo la testimonianza chiave della funzionaria interna della Regione Ornella Piredda, considerata la super teste. Un’inchiesta che ha cambiato anche il corso della storia politica sarda con il caso della dem Francesca Barracciu, che per via dell’inchiesta a suo carico si ritirò dalla corsa come candidata presidente (lasciando il posto a Francesco Pigliaru, ora governatore), si dimise più tardi da sottosegretaria alla Cultura dopo il rinvio a giudizio.
Mario Diana, 71 anni, nel 2013 era invece finito in carcere insieme al suo collega di partito Carlo Sanjust. Per entrambi si temeva allora l’inquinamento delle prove, a Sanjust in particolare si contestava il banchetto del matrimonio nella cornice del Bastione Saint Remy a Cagliari pagato con soldi pubblici. Un giro di fatture “ritoccato” dall’imprenditore Riccardo Cogoni – finito ai domiciliari – che è valso a Sanjust una condanna in appello a 3 anni con il rito abbreviato. Mentre Diana è stato del tutto assolto oggi per quell’evento, nonché per l’acquisto di un lussuoso orologio (il perito del tribunale ha accertato che le sue firme su alcuni assegni erano state falsificate) e per alcune bollette telefoniche.
Dal carcere di Massama (Oristano) Diana – da dove era uscito dopo sei mesi, nel marzo 2014 – aveva mandato auna lettera durissima in cui accusava i colleghi di silenzi e lamentava il fatto di sentirsi un capro espiatorio. Tesi ricalcata in parte dai suoi legali, Pierluigi Concas e Massimo Delogu, durante le udienze: “Diana è stato usato come paravento per i reati commessi da altri, evitiamo di fare felici queste persone e si faccia pagare al mio assistito solo le eventuali colpe che ha commesso”. In Aula, alla lettura della sentenza, c’era anche lui. All’uscita poche parole: “Mi sento come una persona che è stata condannata a cinque anni”. Tra le pene accessorie l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e l’interdizione legale durante l’esecuzione della pena. “Ci sono buoni presupposti per l’appello” dicono i suoi avvocati.