Le accuse che lo special counsel Robert Mueller muove per incriminare dodici funzionari dell’intelligence russa arrivano alla vigilia dell'incontro che Donald Trump avrà con Vladimir Putin a Helsinki
Accesso non autorizzato nel server del partito democratico. Diffusione di email riservate. Furto di identità. Riciclaggio di denaro. Hacking dei sistemi utilizzati dai singoli Stati durante il voto. Sono le accuse che lo special counsel Robert Mueller muove per incriminare dodici funzionari dell’intelligence russa. Ventinove pagine, che descrivono gli sforzi fatti dal governo di Mosca per influenzare le elezioni presidenziali Usa 2016 e danneggiare Hillary Clinton. Niente di così preciso e dettagliato era stato prodotto sino ad ora dall’ufficio dello special counsel. L’annuncio dell’incriminazione arriva in un momento cruciale, a poche ore dall’incontro che Donald Trump avrà con Vladimir Putin lunedì a Helsinki.
I dodici incriminati sono funzionari del GRU, l’intelligence militare russa. Lo scorso febbraio sempre Robert Mueller, che conduce l’inchiesta sulle interferenze del Cremlino alle elezioni del 2016, aveva incriminato altri tredici cittadini russi e tre società di Mosca. Questa volta le accuse sono però ancora più esplicite. Rod Rosenstein, il vice attorney general che ha presentato i risultati dell’indagine, ha spiegato che i russi hanno condotto “una guerra informatica” contro gli Stati Uniti durante la campagna 2016, con l’obiettivo di “diffondere sfiducia verso i candidati e il sistema politico in generale”. Rosenstein ha spiegato che “internet consente ad avversari stranieri di attaccare gli Stati Uniti in modi nuovi e inaspettati”. Rosenstein ha anche detto di aver informato Trump dell’esito dell’inchiesta, mentre questi si trovava al castello di Windsor per incontrare la regina Elisabetta.
Le agenzie dell’intelligence americana – Fbi, Cia, Nsa – erano già arrivate alla conclusione che migliaia di mail del partito democratico erano state rubate da uomini e gruppi legati al Cremlino, e poi diffusi, per esempio da Wikileaks, in uno sforzo di danneggiare la candidatura di Hillary Clinton. Il nuovo atto d’accusa fa esplicito riferimento a ben noti account online, come Guccifer 2.0 e DCLeaks, che hanno pubblicato le mail riservate dei democratici e dietro cui non si nasconderebbero altri che i funzionari dell’intelligence militare russa. I russi sono accusati anche di aver cercato accesso ai software responsabili delle operazioni elettorali in alcuni Stati americani, anche se Rostenstein ha spiegato che la conta dei voti non è stata influenzata.
Rudolph Giuliani, uno degli avvocati di Trump, ha affermato che la messa sotto accusa dei funzionari del GRU mostra che “nessun americano è stato coinvolto”. Giuliani chiede anche che Mueller chiuda finalmente la sua inchiesta. In realtà, nelle ventinove pagine dell’atto d’accusa si afferma proprio il contrario. Gli hackers russi sarebbero infatti stati in comunicazione con “una persona che era in contatto regolare con membri influenti della campagna presidenziale” di Trump. La persona dovrebbe essere Roger Stone, lobbista, amico fraterno di Trump, collaboratore alla campagna 2016. Stone è già stato accusato da due suoi ex collaboratori di aver comunicato con Julian Assange di Wikileaks, venuto in possesso di email personali di John Podesta, il manager della campagna presidenziale di Clinton. Nei nuovi documenti, resi pubblici da Rosenstein, l’hacker, identificato come Guccifer 2.0, comunica con la persona vicina all’entourage di Trump e scrive: “Per piacere, fammi sapere se posso essere di aiuto in qualche modo… sarebbe un grande piacere per me”. In un altro scambio, alcune settimane più tardi, sempre Guccifer 2.0 fa esplicito riferimento a un documento rubato al Comitato democratico del Congresso e chiede cosa la persona vicina alla campagna di Trump ne pensi “come strumento per influenzare l’intera campagna”.
L’atto di accusa presente nelle pagine ora rese pubbliche fa nascere molti interrogativi – non tutti legati alla campagna di Trump. Per esempio: la prima dichiarazione ufficiale dell’amministrazione americana sulle infiltrazioni russe risale all’ottobre 2016. Quando le agenzie dell’intelligence Usa vennero a conoscenza di queste infiltrazioni? Prima o dopo l’ottobre 2016? Se la cosa avvenne prima, quali misure vennero prese per contrastare un atto gravissimo come la manipolazione elettorale da parte di una potenza straniera? Quando e come venne informato il presidente di allora, Barack Obama? C’è, nelle carte presentate da Mueller, un altro dettaglio particolarmente inquietante. Gli hackers russi cercarono di entrare per la prima volta nei server del partito democratico il 27 luglio 2016. In quello stesso giorno Trump andò in televisione e incoraggiò i russi ad hackerare le mail di Clinton. “Ti dico questo, Russia – spiegò Trump -. Se sei in ascolto, spero che tu sia capace di trovare le 30mila mail mancanti” (un riferimento alle mail che sarebbero sparite dal server di Clinton, quando questa era segretario di Stato).
Al di là dei risultati dell’inchiesta, che rappresenta un passo avanti notevole perché mostra quanto studiato sia stato il tentativo del Cremlino di danneggiare Clinton, ci sono ora le ricadute politiche e diplomatiche. Il governo russo rifiuta di commentare le rivelazioni che vengono da Washington. A nessuno sfugge però che lunedì Trump incontra, ultima tappa del suo viaggio europeo, proprio Putin. Da Londra, Trump ha ribadito che l’inchiesta di Mueller è una “caccia alle streghe”. Per il presidente Usa, reduce da una serie di commenti distruttivi sui vecchi alleati europei e sulla Nato, diventa però sempre più difficile mantenere la linea seguita sinora: e cioè che la sua campagna elettorale, nel 2016, sia stata completamente all’oscuro della più ampia opera di infiltrazione e manipolazione della storia politica ed elettorale americana.