Cinema

Ingmar Bergman, a 100 anni dalla nascita impressioni su sette capolavori del regista che abitava sempre nei suoi sogni

Una carriera straordinaria, straripante di successi fra teatro e televisione ma soprattutto tanto, magnifico cinema che ha ispirato e continua a ispirare una generazione di registi

di Marco Colombo

V – Il set come un focolare: Sussurri e grida (1972)

“Tutti i miei film possono essere pensati in bianco e nero, eccetto Sussurri e grida. C’è scritto anche nella sceneggiatura, io ho sempre immaginato il rosso come l’interno dell’anima”. Affascinato dal dramma intimo di August Strindberg e dal “cinema da camera” tedesco, nei primi anni 70 il maestro svedese incornicia la sua tela più sgargiante, sezionando il ricordo di sua madre e affidandone la caleidoscopica rievocazione a quattro donne: Agnese (moribonda), le sue due figlie Karin (bella) e Maria (forte) e la governante Anna (servizievole). Se l’efficacia nell’uso psicoanalitico del colore è da attribuirsi in primis allo straordinario direttore della fotografia Sven Nykvist – non a caso voluto da Woody Allen per la sua pellicola più bergmaniana, Interiors -, la complessiva riuscita dell’opera gode della magistrale interpretazione resa dalle protagoniste Harriet Andersson, Ingrid Thulin, Liv Ullmann e Kari Sylwan. Proprio la ricorsività di questi nomi all’interno delle troupe di Bergman e l’affezione del regista per attori-feticcio adottati di volta in volta come veri e propri alter ego della propria personalità, lasciano risuonare curiose corrispondenze con il modus operandi di un altro genio a lui successivo: Rainer Fassbinder.

VI – Baci e abbandoni: Scene da un matrimonio (1973)

Concepito a mo’ di pièce teatrale, sviluppato come una miniserie per la tv di sei episodi da 50 minuti ciascuno e condensato per il cinema in un’unica pellicola di quasi tre ore, Scene da un matrimonio altro non è che la più pessimistica, lacerante, velenosa e sublime indagine attorno al quinto sacramento. Pur accompagnando analiticamente lo spettatore attraverso le fasi che conducono dall’innocenza aurorale della coppia sino alla sua inevitabile autodistruzione, quest’opera non mira a gettare discredito sul rapporto coniugale, tentando piuttosto di demistificarlo e di liberarlo dalle catene dell’idealizzazione. Come di consuetudine, i trascorsi dell’autore vanno a miscelarsi con la sua arte ed ecco dunque dipanarsi nella vita di Bergman uno sterminato catalogo di relazioni, arricchito da nove figli e cinque matrimoni; margherite colte per lo più fra le muse del suo stesso cinema. Trent’anni più tardi, con Sarabanda, Ingmar realizzerà il sequel della pellicola del 1973, ritrovandovi gli stessi personaggi, quasi a non volersene mai distaccare.

VII – Nel nome del padre. E della fantasia: Fanny & Alexander (1982)

Testamento artistico di una carriera straordinariamente prolifica, Fanny e Alexander conserva in ogni millimetro della propria cellulosa l’impronta biografica del suo autore, a cominciare dalla maniacale riproduzione scenica degli ambienti della casa natale di Ingmar. Vincitore di quattro premi Oscar tra cui quello al Miglior film straniero, il film custodisce il contraddittorio rapporto tra Bergman e il padre, cinematograficamente ricalcato nei continui conflitti fra il piccolo Alexander (alter ego di Ingmar) e l’autoritario Vergérus. Pastore protestante al servizio di una morale rigida e austera, quest’ultimo ricalca infatti con straordinaria fedeltà i contorni di Erik Bergman, mandatario di un’educazione rigida e ricordata con claustrofobico rancore dal regista scandinavo. Teatrini, marionette e lanterne magiche fluttuano nell’incanto di quest’angoscioso affresco familiare come segni premonitori del cinema successivo dell’artista svedese, rischiarati tuttavia dai sussurri di una fantasia che nulla arresta e tutto può. “Io vivo continuamente nella mia infanzia e abito sempre nel mio sogno: di tanto in tanto, faccio una piccola visita nella realtà”.

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