Per il vicepresidente degli Avvocati Giuslavoristi Italiani, che pure avrebbe voluto un provvedimento più coraggioso, è "infondata per svariate ragioni" anche la paura che i contenziosi sui contratti a termine riprendano. La visione opposta del collega e presidente Agi, Aldo Bottini
Lobby o verità? Gli 80mila posti di lavoro in meno in dieci anni calcolati dai tecnici del ministero nella relazione al Dl Dignità ci saranno davvero? Il dato riportato nella relazione tecnica al decreto è già un caso politico che ha fatto addirittura gridare al complotto il ministro del Lavoro Luigi Di Maio, a sua volta sbeffeggiato dalle opposizioni che parlano di effetto boomerang della decantata norma. “Una proporzione matematica che non ha nessun fondamento reale”, è invece la definizione dell’avvocato Vincenzo Martino, giuslavorista e vicepresidente dell’Agi, associazione forense che riunisce gli esperti italiani di diritto del lavoro.
“È un calcolo matematico non supportato da nessun parametro oggettivo, una previsione che secondo me lascia il tempo che trova. Il problema non è il numero di posti di lavoro, ma è capire quanti contratti a tempo determinato alla scadenza dei 12 mesi verranno convertiti in indeterminati: se l’Istat considera occupata una persona che lavora un’ora alla settimana, non è detto che quello che viene perso sia realmente un posto di lavoro. – spiega a ilfattoquotidiano.it – Quindi bisogna capire complessivamente quante sono le ore lavorate, quella è la statistica importante e il punto non è sapere quanti contratti a tempo determinato in meno ci saranno, ma quanti contratti a tempo indeterminato in più ci saranno. Un parametro che ci dirà se la misura è stata efficace. Io ora non lo so, probabilmente non lo sa nessuno”.
Su questo fronte, quindi, per gli esperti è presto per valutare. Più facile, invece, il confronto tra vecchio e nuovo sul tema dei contenziosi che secondo gli industriali torneranno a intasare le aule dei tribunali per via del ripristino dell’obbligo di motivare i contratti termine al secondo rinnovo dopo i primi 12 mesi, con una causa ben specifica. Un vero e proprio spauracchio, si sono lamentati nei giorni scorsi gli imprenditori italiani, per i quali la ritrovata causalità obbligatoria potrebbe essere addirittura una buona ragione per smettere del tutto di stipulare contratti di lavoro. Fare due conti in questo caso non è impossibile, visto che l’obbligo di causa è stato rimosso da pochi anni. Anche se i punti di vista in merito possono essere molto diversi, come dimostra la stessa Agi dove dimorano pacificamente anime molto diverse, ben rappresentate dal presidente Aldo Bottini e dal suo vice Martino.
“Nel 2012 le cause di lavoro iscritte a ruolo, cioè di ricorsi presentati in tribunale, sono state 8.019 relativamente ai contratti a termine – spiega l’avvocato Bottini – Nel primo semestre 2017 ce ne sono state 490. Ora, se si vuole fare una proiezione sull’intero anno, si può arrivare ad un migliaio di cause. Mi sembra evidente il crollo verticale dovuto all’aver tolto una fonte di incertezza e contenzioso come la causalità”. La reintroduzione di questa clausola per i contratti a tempo determinato secondo il giuslavorista rischia quindi di far lievitare nuovamente il numero dei ricorsi. “Questo è indubbio perché si reintroducono fattori di incertezza con soluzioni non misurabili – precisa – Con le nuove regole, i rinnovi potranno avvenire infatti per due motivi: il primo l’incremento significativo e non programmabile dell’attività; il secondo è l’esigenza temporanea e oggettiva estranea all’ordinaria attività”. Queste soluzioni, secondo Bottini, introducono però elementi non chiari e facilmente identificabili.
Non la vede così l’avvocato Martino, che pure conferma i numeri e, quindi, il crollo dei contenziosi seguito alle modifiche normative del 2012 e del 2014. Ma con diversi distinguo.”Le cause di lavoro sono calate moltissimo ultimi anni, purtroppo non perché funzionano i metodi alternativi di composizione delle controversie, ma perché ci sono meno diritti e perché azionarli è più complicato e costoso“, spiega. Ma 8mila ricorsi non sono in assoluto un po’ pochi per parlare di intasamento dei tribunali? “Sì, è una critica strumentale e ingiusta, che è stata portata avanti anche da avvocati di peso. Sia per il numero che non è impressionante, sia per le ragioni che hanno portato alla diminuzione di questo numero che non sono apprezzabili”.
Secondo Martino, quindi, “i contenziosi sono diminuiti sensibilmente, ma la paura che riprendano è infondata per svariate ragioni. Innanzitutto bisogna dire che se le aziende assumeranno secondo le regole non ci saranno presupposti per i contenziosi. In secondo luogo i contenziosi che avevano effettivamente intasato i tribunali erano generati soprattutto da comportamenti molto disinvolti in materia di contratti a termine da parte di alcune grosse aziende pubbliche come Poste, Ferrovie o Rai che avevano abusato di questo tipo di accordi – sottolinea -. Quello era il contenzioso che giustamente deve sparire, perché le aziende si devono adeguare alle regole”. In generale, però, “non c’è tanto da gioire per il calo del contenzioso, lo dice anche il ministro Bonafede nella sua relazione al Parlamento sullo stato della giustizia dove, parlando della giustizia civile, dice che il fatto che calino le cause di per sé non è un dato positivo: se le cause calano perché non ci sono più i diritti o perché azionarli è troppo costoso, non è un segno di civiltà”. In altre parole, sottolinea ancora Martino, “se si rende il contratto a termine del tutto libero senza nessun vincolo, è chiaro che le cause scendono, ma questo non vuol dire che sia un dato positivo perché ci sono lavoratori condannati al precariato a vita“.
Su una cosa, però, Bottini e Martino sono d’accordo: sarebbe stato meglio intervenire diversamente. Per il primo con soluzioni più chiare e definite che lasciassero minore spazio all’interpretazione del singolo giudice e limitassero così automaticamente i contenziosi. “Se proprio si volevano introdurre dei limiti ai rinnovi di contratti a termine si poteva anche agire diversamente. Nel 2014 sono stati introdotti due limiti quantitativi: il tetto al 20% dell’organico stabile e i 36 mesi. Si poteva pensare di agire su questi due vincoli, come in parte è stato fatto sulla durata che scende a 24 mesi. Si poteva, ad esempio, ridurre anche la percentuale portandola magari al 15 per cento oppure limitare il numero di proroghe. Con vincoli misurabili si sarebbe evitata l’incertezza che fa scattare le cause”, sostiene il presidente Agi. Per non parlare del fatto che lo spazio lasciato dal legislatore obbligherà il datore di lavoro a rivolgersi ad un avvocato per stilare le causali. “Guardi, a noi va anche bene: si lavora di più – conclude ironicamente il numero uno dei giuslavoristi – Ma avremo preferito una norma più chiara. Bisogna semplificare la vita, non complicarla”.
Per il vicepresidente Agi, invece, quello fatto dal dl Dignità “è un primo timido passo, sarebbe stato molto meglio, molto più coerente reintrodurre le causali fin dal primo giorno per evitare il rischio di una sostituzione del lavoratore alla scadenza dei primi 12 mesi, rischio in cui non si incorre se il datore di lavoro deve giustificare il contratto a termine sin dal primo contratto. Cioè se ho un esigenza temporanea, la scrivo nella lettera e la comunico al lavoratore, se non ho un’esigenza temporanea ma strutturale, lo assumo a tempo indeterminato. Questa dovrebbe essere la regola “.
In generale, infine, l’avvocato Martino avrebbe apprezzato “più coraggio” anche sulle altre parti del decreto. Come quelle relative ai licenziamenti illegittimi di dipendenti a tempo indeterminato con la previsione di un incremento del risarcimento previsto dal jobs act al posto del reintegro. “Le modifiche sul risarcimento sono il pannicello caldo che non risolve il problema, perché si muovono nell’ambito del contratto a tutele crescenti, quindi nella logica del jobs act”, sostiene. Rilevando come “l’aumento del risarcimento non riporta la reintegrazione nel posto di lavoro al centro del sistema: è solo la reintegrazione nel posto di lavoro l’elemento che garantisce la dignità del lavoratore e l’esercizio degli altri diritti in corso di rapporto, non il risarcimento. Che poi 36 mensilità sembrano tante, ma i primi ad avere diritto a 36 mensilità li vedremo nel 2033 perché saranno necessari 18 anni di anzianità“. Quindi adesso sono ancora sei le mensilità di risarcimento a cui un lavoratore licenziato ingiustamente può aspirare. “In pratica ieri pagavo quattro mensilità per mandare a casa qualcuno senza giusta causa, oggi ne pago sei: questo non è un deterrente sufficiente per i licenziamenti strumentali, illegittimi, senza giusta causa. Solo riportare la reintegra al centro del sistema sarebbe veramente coerente con l’impostazione della norma che giustamente fa sua la parola d’ordine della dignità del lavoro”, conclude Martino. Non senza rimarcare la mancata abolizione della somministrazione a tempo indeterminato, lo staff leasing, e rilevando che se poi dovessero rispuntare i voucher “che sono l’emblema della precarietà sarebbe una contraddizione vistosa rispetto al taglio del decreto”.