C’è molta curiosità e attesa, da parte degli addetti ai lavori, sulla ventilata riforma del farraginoso codice appalti, causa di ansie e angosce a ogni correttivo. Non passa mese, da quando fu emanato il D. Lgs. 50/2016, che non escano rettifiche, correttivi, circolari, aggiornamenti, indicazioni e interpretazioni sia dal legislatore sia dall’Anac con le sue famose Linee Guida.
Proprio queste indicazioni sono, a volte temute e prese alla lettera, a volte snobbate come semplici suggerimenti privi di valore giuridico dalle Stazioni Appaltanti, che infatti non raramente vi constatano contraddizioni allo stesso codice. La Legge sugli Appalti, un corpus iuris di oltre 200 articoli, rappresenta un groviglio normativo di difficile gestione. Pressoché un ostacolo alla snellezza e trasparenza nelle procedure da parte delle stazioni appaltanti e dei concorrenti, imprese e professionisti del settore.
Si sono chieste più volte deroghe (soluzione sempre deprecabile), soprattutto in occasione della realizzazione di opere con scadenze ravvicinate, poiché la tortuosa regolamentazione aveva portato a dilatare i tempi di gara e lo svolgimento di lavori sfociati nel ricorso e contenzioso. Il fatto stesso che ogni qualvolta viene emanato un Bando di gara, vi sia una quantità considerevole di Faq, significa non solo che le Stazioni Appaltanti non sappiano redigerli in modo esaustivo ma soprattutto è quasi impossibile anche per loro non incappare nelle antinomie delle norme. Il sistema degli appalti poi è sempre stato governato da una pluralità di soggetti a livello centrale, regionale e settoriale, con il coinvolgimento di molti Ministeri coinvolti a vario titolo, con compiti e funzioni non sempre chiaramente individuati, che agiscono in assenza di un efficace coordinamento istituzionale.
Si auspica che il Codice Appalti venga sottoposto a una drastica cura dimagrante perché allo stato attuale non si garantisce la trasparenza o si chiariscono i dubbi, anzi si creano interpretazioni lasciate al libero arbitrio dei soggetti interessati. Dello stesso parere è il Presidente Nazionale degli Architetti Giuseppe Cappocchin che auspicherebbe uno stralcio dal Codice, che spazia dalle imprese di pulizia alle forniture ospedaliere, della parte inerente l’edilizia per passare quindi a un Codice della Progettazione.
Un buon progetto è anche un antidoto all’illegalità e, puntando alla qualità dell’Architettura, si possono rendere più competitive le città puntando anche ai concorsi di progettazione in due gradi: il primo selettivo per scegliere le idee migliori, il secondo, parzialmente retribuito, per verificarne la praticabilità.
Retribuito perché la dignità e l’indipendenza del lavoro dell’architetto o ingegnere passa anche da questo giusto principio, sostenuto con forza dal Presidente, il quale ha peraltro ingaggiato una dura battaglia contro il Comune di Catanzaro che pretendeva uno svolgimento di un’attività, anche molto impegnativa e strategica, a titolo gratuito, parere assurdamente condiviso dal Consiglio di Stato.
Già, perché sovente i magistrati, civili o amministrativi, sostituendosi agli Ordini, stabiliscono, senza il supporto delle Leggi che regolamentano la materia (vedi il Decreto Parametri), la retribuzione di un lavoro sulla scorta dei calcoli di un perito, magari non competente in materia, e ovviamente, come ricorda Cappochin relativamente all’aberrante sentenza del Consiglio di Stato per Catanzaro con un compenso simbolico di un euro, manifestamente in contrasto con la legge urbanistica nazionale n° 1150/1942 e il codice civile. La liberalizzazione selvaggia danneggia poi soprattutto i giovani professionisti come recentemente ha documentato un servizio di Presa Diretta.
In sostanza si invoca una sorta di ‘decreto dignità’ anche per le professioni tecniche, a volte costrette, da gare assurde, a sconti paradossali per potere ottenere il lavoro, “una sorta di caporalato” tuona Capocchin. E anche una regolamentazione delle attività in modo tale da privilegiare la qualità del progetto e il rigore nello svolgimento dell’intero percorso progettuale, che deve sempre tendere ad una migliore qualità della vita della collettività e non a una sorta di incoraggiamento all’istigazione a delinquere come sempre il Presidente Nazionale ha definito la sentenza del Consiglio di Stato sulla liceità del lavoro gratuito.