I risultati concreti dell’incontro sono poco importanti per il leader russo che potrebbe portare a casa una promessa sulla futura partecipazione americana alle operazioni Nato della Trident Juncture. O assicurazioni su un ammorbidimento USA nella vicenda della Crimea. Per quanto importanti, non sono però questi i veri obiettivi del Cremlino. Ma il nuovo ruolo internazionale della Russia. Più difficile per Trump, destinato a sollevare critiche e sospetti qualunque sia l'esito
C’è una lista di probabili questioni che Donald Trump e Vladimir Putin affronteranno oggi al palazzo presidenziale di Helsinki: Siria, Ucraina, disarmo. C’è la convinzione che dal summit non uscirà niente di davvero concreto. Lo stesso presidente americano ha detto, in un’intervista a CBS, di andare a Helsinki “con scarse aspettative”. E lo stesso Trump, a poche ore dall’incontro, ha alzato il tiro su Twitter: “Il nostro rapporto con la Russia non è mai stato peggiore di così”. Dal Dipartimento di Stato è filtrata poi la notizia che all’incontro si è lavorato molto poco, rispetto per esempio a quello con Kim Jong Un a Singapore. E’ però convinzione generale, anche negli ambienti politici e diplomatici americani, che il meeting serva più agli interessi di Putin e che l’esito, per l’amministrazione di Donald Trump, sarà molto più incerto.
Anzitutto, l’agenda. A Helsinki il presidente americano e quello russo parleranno sicuramente di Ucraina. L’annessione russa della Crimea nel 2014 – giudicata illegale da Stati Uniti ed Europa e causa di pesanti sanzioni contro Mosca – potrebbe essere oggetto di ulteriori aperture americane. Trump ha provocato grande sconcerto alla riunione del G7 lo scorso giugno, quando ha spiegato che in Crimea “la gente parla russo” e quindi la penisola dovrebbe essere annessa alla Russia. Di recente, il governo di Kiev ha ricevuto assicurazioni da Washington sul fatto che la politica USA sulla Crimea rimane inalterata, ma permangono comunque forti preoccupazioni su cosa Trump potrà concedere a Putin. Certo anche che durante il colloquio (che si svolgerà con la sola presenza degli interpreti) verrà toccato il tema della Siria, con la richiesta americana a Mosca di contenere l’influenza iraniana nella regione. E all’ordine del giorno c’è anche il rinnovo del New Start Treaty, il trattato sulla riduzione delle armi nucleari firmato nel 2010. L’accordo scade nel 2021, il consigliere alla sicurezza nazione USA John Bolton esprime dubbi sul rinnovo e i russi chiedono che il sistema di difesa missilistico dell’Europa dell’est venga inserito nel negoziato. Quindi, Putin e Trump dovranno per forza affrontare il tema.
Detto questo, gli aspetti simbolici e propagandistici dell’incontro sono probabilmente più importanti di quelli politici e diplomatici. Trump arriva a Helsinki inseguito dal fantasma, ormai onnipresente, dell’inchiesta di Robert Mueller sulle ingerenze russe nelle elezioni del 2016. Venerdì 12 funzionari dell’intelligence militare russa sono stati ufficialmente incriminati dal Dipartimento alla giustizia USA per avere, in modi diversi, cercato di influenzare il processo elettorale delle presidenziali. Nell’intervista a CBS, Trump ha detto di “non aver pensato” di chiedere a Putin di estradare i dodici funzionari russi, ma che “potrebbe farlo”. La scarsa convinzione dell’affermazione del presidente americano rivela le divisioni che sul tema delle interferenze russe continuano ad esistere nell’amministrazione. Se il Dipartimento al Tesoro USA parla di “attività maligna” di Mosca nel mondo, il presidente americano lamenta che tutta l’indagine di Mueller sia una “caccia alle streghe” che “danneggia pesantemente le nostre relazioni con la Russia”.
Nonostante tutti gli sforzi fatti dalla Casa Bianca in questi mesi per cercare di disinnescare la “bomba russa”, il fantasma “dell’attività maligna” del Cremlino continua quindi a segnare la politica americana. Non sono soltanto i democratici (che hanno chiesto che Trump annulli il meeting con Putin dopo l’incriminazione dei dodici funzionari russi) a rilanciare le accuse sul ruolo di Mosca nella vittoria repubblicana del 2016. Sono gli stessi repubblicani a mantenersi apertamente contrari a qualsiasi apertura nei confronti della Russia. Il senatore repubblicano John Kennedy ha spiegato che “non ci si può fidare di Putin” e che avere a che fare con le autorità russe è come “fare accordi con la mafia”. E’ andato ancora più in là il suo collega Thom Tillis, che ha spiegato che qualsiasi intesa tra Putin e Trump non avrà comunque valore, perché “prima deve passare dal Congresso”. In altre parole, è l’intero partito repubblicano a restare profondamente sospettoso di Putin, a ritenerlo un interlocutore inaffidabile, a pensare che la Russia abbia fatto opera di hackeraggio durante le elezioni del 2016 e che ora sostenga forze di estrema destra in Europa per spaccare l’Occidente e mettere in discussione l’intero equilibrio geopolitico mondiale.
Le dichiarazioni più recenti di Trump, sull’Europa “nemica” commerciale degli Stati Uniti e sulla necessità che la Gran Bretagna adotti una Brexit radicale, hanno ulteriormente preoccupato il vecchio establishment diplomatico di Washington, che vede nelle esternazioni di Trump una messa in discussione senza precedenti delle politiche USA degli ultimi decenni. Ovviamente, ogni divisione a Washington, e in campo atlantico, è vista con favore da Mosca. E qui entra in gioco l’interesse russo alla vigilia dell’incontro di Helsinki. Le ultime esternazioni di Trump contro l’Europa e la Nato hanno colto di sorpresa perfino gli ambienti politici russi. Tatyana Parkhalina, presidente dell’Associazione russa per la cooperazione Euro-Atlantica, ha detto di recente alla TV di stato russa che “stiamo assistendo a qualcosa di sorprendente, qualcosa che persino l’Unione Sovietica non era stata capace di compiere: dividere gli Stati Uniti e l’Europa occidentale non funzionò allora, ma sembra funzionare ora con Trump”.
L’aperta crisi nei rapporti tra Stati Uniti ed Europa, e la spaccatura nella politica americana sull’atteggiamento da tenere verso la Russia, sono quindi già una vittoria per Mosca. “Siamo ben consapevoli del fatto che l’establishment americano sia ostaggio di stereotipi” nei confronti della Russia, ha detto il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov. Il fatto è che questi stereotipi non disturbano il Cremlino, ma sono anzi visti come uno strumento utile per fomentare divisioni e spaccature in Occidente. C’è poi il tema del ritorno di immagine che il meeting di Helsinki può offrire a Putin. Dopo il successo dei Mondiali di calcio, Putin può godere di una nuova importante ribalta e di un significativo riconoscimento, interno e internazionale. All’esterno, il presidente russo mostra che la Russia è tornata a parlare, da pari, con gli Stati Uniti. All’interno, grazie anche a un controllo capillare dei mezzi di informazione, può esibire il rinnovato prestigio russo, che potrebbe portare (come peraltro già ventilato proprio da Trump) a una riammissione al G7.
Ecco perché soltanto l’entrata nel palazzo presidenziale di Helsinki è per Putin un successo. I risultati concreti dell’incontro sono per lui molto meno importanti. Putin potrebbe portare a casa una promessa sulla futura partecipazione americana alle operazioni Nato della Trident Juncture. O assicurazioni su un ammorbidimento USA nella vicenda della Crimea. Per quanto importanti, non sono però questi i veri obiettivi del Cremlino. E’ il nuovo ruolo internazionale della Russia, e l’ormai evidente incapacità americana di porsi come leader a livello globale, i risultati che Mosca ha già conquistato. Molto più sfumato e incerto l’esito per Trump. Comunque torni a casa, con un nulla di fatto o sbandierando nuove relazioni con la Russia, il presidente americano è destinato a sollevare nuove critiche e sospetti.