Vittorio Valentino il primo trasferimento, da Napoli a Tolosa, l'ha subito quando il padre ha deciso un trasferimento in Francia per motivi di lavoro. A Tunisi è arrivato per una cattedra all'Università della Manouba, tra le più importanti della Tunisia, per insegnare letteratura italiana e letteratura delle migrazioni
Vedere tuo padre partire, sentire la sua mancanza per un anno e aspettare il suo ritorno. Senza sapere che in quel giorno ti sarà detta una verità che cambierà la tua vita per sempre. “Ci trasferiamo in Francia”, ed ecco che la tua vita di 16enne inizia a frantumarsi. Fare le valigie in fretta, perché il tempo che ti concederanno non sarà mai abbastanza per dire addio ai nonni, agli amici e ai luoghi della tua Napoli. In macchina la mamma e il papà davanti, tu e le due sorelline più piccole di 15 e 5 anni sui sedili posteriori. “Mio padre era perito aeronautico in un’azienda a Pomigliano d’Arco ma dopo qualche mese di sciopero e l’inizio della cassa integrazione, la nostra situazione economica ha iniziato a degradarsi velocemente”. Tante spese e poco futuro davanti agli occhi. “Serviva prendere una decisione velocemente, anche perché eravamo in cinque in famiglia”.
Nel rivedersi nel passato Vittorio Valentino, insegnante di 37 anni, prova una certa tenerezza. “Ero un ragazzino strappato dalla sua periferia napoletana, dal suo quotidiano, dalla sua scuola superiore, durante l’adolescenza, un periodo importante per la propria crescita, per essere inserito in un Paese del tutto diverso come la Francia, in un contesto completamente nuovo, senza parlare la lingua o conoscere nessuno”. Dopo qualche anno difficile a Pomigliano, infatti, suo padre ha chiesto ed ottenuto un trasferimento in Francia, a Tolosa, dove la sua ditta collaborava con un’azienda francese. “Dal punto di vista economico è stata una svolta importante, visto che lavorare in trasferta implica uno stipendio migliore. Anche se molto giovani, noi figli eravamo coscienti della nostra situazione economica precaria, e abbiamo accettato questa scelta anche se sapevamo avrebbe stravolto le nostre vite”. Visto dal comodo salotto della propria terra natale, la vita di un italiano all’estero può sembrare stimolante e avvincente. “Innegabile l’arricchimento legato all’esperienza della migrazione – racconta il 37enne napoletano – ma per tutti coloro che scelgono o che sono costretti a scegliere questa strada, è altrettanto innegabile il dolore legato alla nostalgia”.
Oggi Vittorio è docente ricercatore universitario a contratto all’Università della Manouba, tra le più importanti della Tunisia. Dopo una prima migrazione a Tolosa, quando aveva 16 anni, è seguito un secondo trasferimento a Tunisi, solo due anni e mezzo fa, dove il 37enne insegna letteratura italiana e letteratura delle migrazioni. Nel passaggio da Italia a Francia, infatti, è nata in lui la passione per la figura del migrante. “Dopo anni di adattamento in una realtà così diversa dalla mia periferia napoletana, ho intrapreso degli studi di lettere, forse proprio per avere parole con cui elaborare la perdita della cittadinanza napoletana, quel sentire amici e affetti trasformarsi e allontanarsi fino a diventare piccole macchie”. Così, il trasferimento da Napoli a Tolosa ha voluto dire anche passare da un istituto tecnico a un liceo con orientamento letterario, poi una laurea in italianistica a Tolosa, una specialistica a Montpellier con tesi su Erri de Luca, per finire con un dottorato – sempre a Montpellier – sulla letteratura della migrazione nel contesto mediterraneo. Pochi anni di insegnamento precario in Francia sono bastati per ricevere un invito ad avere una cattedra in un ateneo tunisino.
“Nel bacino mediterraneo, migrare è stata spesso la risposta a grandi sconvolgimenti legati al colonialismo e alle sofferenze degli ultimi. Il Sud Italia, uscito distrutto dall’unità d’Italia, ha intrapreso prima del fascismo una grande emigrazione povera e speranzosa verso Africa e Tunisia. L’Italia fascista è stata proprio in Africa una potenza coloniale che ha causato danni e sofferenze enormi”. Secondo l’esperto di migrazioni, l’unico modo per affrontare l’attuale arrivo di migranti è quello di guardare al passato e rendersi conto di vivere in anni in cui anche i giovani italiani hanno ripreso la strada della migrazione. È la sua stessa storia a parlare. “Aver dovuto lasciare il mio luogo d’origine, coincide con uno stato di cose ben preciso, che incontra quegli sconvolgimenti e quelle sofferenze che il Sud Italia subisce da più di un secolo e mezzo e che ne hanno fatto un luogo di partenza, una ferita dalla quale fugge, di continuo, forza lavoro. Così è stato per mio padre. Così, di conseguenza, è anche per me”.
Pur non vivendoci da quando aveva 16 anni, Napoli resta la città che sente più sua. “Credo di non essere mai andato veramente via da Napoli, anche se sono ormai passati più di vent’anni. È per me il simbolo dell’appartenenza e delle mie radici. Il dialetto o la musica mi accompagnano sempre, come se non l’avessi mai lasciata”. Tanto che, durante gli anni universitari in Francia, Vittorio ha addirittura fatto richiesta per fare qualche stage nel capoluogo campano. È stato allora che ha avuto la certezza che non sarebbe mai riuscito a iniziare una vita accademica in Italia. “Non hanno voluto mio padre e hanno condannato noi figli a passare solo le vacanze in Italia, nella città che sento mia, circondato dal mio dialetto e vicina al mio modo di essere. So che non potrò mai insegnare in Italia, dove non contano meritocrazia e curriculum ma solo gradi di vicinanza con persone che contano e che decidono chi deve contare”. Un rapporto con il proprio paese che diventa paradossale perché lo stipendio tunisino – che permettere a Vittorio di vivere bene in Tunisia – gli impedisce di visitare l’Italia. “A Napoli sono in famiglia, ma rivedere altre regioni d’Italia diventa spesso difficile: fare il turista in Italia richiede un impegno economico importante. Ci si ritrova così turisti nel proprio paese e per di più con difficoltà”. Eppure Vittorio non riesce a voltare le spalle al suo paese e spera di potervi tornare a vivere un giorno. Forse, solo da migrante si capisce “fino a che punto il proprio luogo d’origine resti sotto pelle, per sempre”.