"Non ci sono più alibi, bisogna mettere mano alle norme che regolano la trasparenza e gli obblighi di pubblicità". In un'intervista esclusiva al fattoquotidiano.it Antonello Soro affronta il tema spinosissimo delle casseforti con cui partiti, leader e correnti ottengono finanziamenti schermati anche da un uso distorto e strumentale della riservatezza. Nove proposte di legge sono andate a vuoto nella scorsa legislatura, tre sono al vaglio della nuova. Ecco come si potrebbero garantire tutti i diritti in gioco impedendo il ricorso a pratiche elusive della trasparenza
“Non ci sono più alibi, privacy e trasparenza oggi possono convivere: è ora di intervenire sulle fondazioni politiche”. Parola del Garante della Privacy. In un’intervista al fattoquotidiano.it Antonello Soro, che sei anni fa si dimise da parlamentare per guidare l’autorità in materia di tutela dei dati personali, sprona il legislatore a mettere mano, dopo infiniti scandali, a una norma che in modo “non sensazionalistico ma equilibrato e ragionevole” disciplini le fondazioni perché siano un “tassello della democrazia” e non possano mai essere un suo fenomeno degenerativo creato da partiti rapaci al solo scopo di schermare chi li finanzia, finché arriva la magistratura. “C’è molto da fare – dice Soro – sia sul fronte della definizione giuridica delle fondazioni politiche, sia sul modo di bilanciare diritti contrapposti dei cittadini alla conoscenza e alla tutela del loro orientamento politico. Ma sono convinto che individuare una giusta sintesi sia ormai necessario e urgente”.
Neanche così complicato poi, secondo il Garante, che lancia un personale auspicio: “Termino il mio mandato a maggio 2019, ecco: sarei contento se si riuscisse ad avere una norma adeguata prima di allora. Significherebbe che il nostro Paese ha maturato finalmente una concezione corretta del valore della privacy che troppo spesso viene ancora invocata a sproposito al solo fine di negare la conoscenza delle dinamiche e dei rapporti economici che sostengono il potere e la politica”.
Da inizio legislatura ci sono già tre proposte di legge per introdurre obblighi di trasparenza, nove in quella passata. Nessuna discussa. Analoghi emendamenti erano stati avanzati nel 2013, in occasione dell’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. Furono tutti respinti
E’ evidente che non c’è stata finora una volontà reale e condivisa di affrontare il nodo delle fondazioni politiche che molti interessi, non sempre legittimi, muove. Ma i tempi sono maturi, anche perché il fenomeno negli ultimi anni è numericamente, e non solo, esploso: dall’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti in poi, complice la progressiva frammentazione in correnti unita l’affermazione di leadership personali, si è assistito a una proliferazione di iniziative, al punto che quasi ogni personalità ormai organizza attorno a una fondazione il proprio spazio di elaborazione e connessione con il mondo.
Sul quale però, stando a diverse inchieste, viaggiano anche molti soldi di provenienza non nota perché le fondazioni sfuggono agli obblighi di trasparenza che valgono per i partiti
Le cronache hanno reso evidente da tempo che sotto l’etichetta delle fondazioni vi siano a volte celate forme di finanziamento diretto o indiretto dell’attività politica, di singole personalità o gruppi, in forme anche elusive delle norme sul finanziamento pubblico ai partiti. Ritengo che per la società e il tempo in cui viviamo siamo arrivati a un punto in cui debba maturare un diverso equilibrio, più bilanciato, tra diritto individuale alla riservatezza e quello collettivo alla trasparenza e conoscenza.
Nella sua relazione di pochi giorni fa, nei pareri e nelle delibere dell’Autorità le parole “fondazione” e “privacy” non si incrociano mai, quasi non fossero in rapporto antitetico
Esatto, a ben vedere non lo sono. Credo di poter dire che sul tema della privacy regni una non casuale confusione che genera vari pregiudizi, compreso quello di considerarla a seconda dei casi è un diritto fondamentale o, all’opposto, un pretesto o un intralcio.
Un esempio di confusione ricercata?
Pochi sanno che, a differenza delle persone fisiche, per le quali sussiste una speciale tutela alla riservatezza di cui parleremo, le persone giuridiche (cioé fondazioni, associazioni, società e imprese, ndr) non hanno alcuna tutela e la trasparenza sulle loro donazioni è to-ta-le.
E allora perché sappiamo così poco dell’origine dei fondi?
Per le persone fisiche è vero che esiste un limite legato alla diffusione in internet del dato, subordinata al loro consenso, ma è pur vero che non può esistere un regime di non conoscibilità a prescindere, come quello che va avanti da tempo e finisce per tutelare chi dona 100 euro allo stesso modo del costruttore che elargisce a più partiti, frazionandole, centina di migliaia di euro.
Esattamente come e dove annega la trasparenza?
L’intero assetto giuridico sulle fondazioni poggia su un limite equivoco non del tutto casuale: il legislatore ha imposto obblighi di trasparenza e pubblicità (statuti, bilanci etc) analoghi a quelli dei partiti ma solo per le fondazioni politiche riconosciute, vale a dire quelle “i cui organi direttivi siano nominati in tutto o in parte dai partiti” ovvero ne finanzino l’attività. In sostanza laddove venga espressamente indicato il collegamento con il partito politico. In tale condizione ricade un numero limitatissimo di realtà, giacché basta dichiararsi fondazione non politica ma “associazione privata” per eludere gli obblighi.
Si può imporre uno regime di “pubblicità” a chi non lo vuole?
Ritengo possibile e auspicabile delimitare e definire in maniera più ampia e puntuale la natura politica delle fondazioni, ricorrendo a criteri legati anche alla loro attività effettiva, non solo ai requisiti formalmente dichiarati. Spetta al legislatore trovare i requisiti utili e affidabili per distinguere la fondazione che per le sue caratteristiche, per l’attività che svolge, per gli impegni sui quali manifesta orientamenti ha un carattere espressivo di un partito o movimento politico.
E una volta riconosciuta la reale natura, e dunque rafforzato il regime pubblicistico in analogia con i partiti, che regole di trasparenza si possono ipotizzare?
Attualmente l’obbligo di dichiarare i finanziatori è per somme superiori a 5mila euro. Io sarei favorevole anche ad abbassare la soglia delle donazioni ritenute “di modesta entità”, anche ai 3.000 euro. Perché ritengo sia necessario far salva tale tipologia di donazioni che di per sé prova una volontà di sostegno disinteressata, che prescinde da eventuali tornaconti per il sostenitore-militante.
E quello “professionale” che supera tale soglia?
Ritengo non possa sottrarsi al diritto alla conoscenza da parte dei cittadini, cui non necessariamente deve corrispondere la pubblicazione in rete (che dovrebbe comunque rispettare la regola del consenso), potendo invece fondarsi sull’ostensione dei dati a richiesta, analogamente all’anagrafe patrimoniale degli eletti. Così che il cittadino che voglia conoscere questi aspetti possa con il minimo sforzo che ne suffraga l’interesse accedere a tali informazioni con accesso controllato, cioé tracciato tramite registro cartaceo e biglietto di estrazione della copia.
Così in prima istanza si tutela la privacy del donatore che non vuole comparire automaticamente in rete e disvelare a tutti il proprio orientamento politico. Ma si garantisce anche la conoscibilità di quel dato che le norme attuali non assicurano. Mi sembra un modo adeguato di bilanciare i due diritti, mentre del tutto risibile mi sembra questa situazione per cui vige un obbligo di informazione e trasparenza per la vita dei partiti e non per le fondazioni che svolgono ordinariamente un’attività contigua a quella dei partiti stessi.
Perché mai i partiti dovrebbero avvallare una riforma che rischia di far saltare le loro casseforti per rastrellare denaro?
Perché ormai la distorsione è evidente e troppo ingombrante. Bisogna fare in modo che le norme garantiscano il reale bene giuridico da tutelare, che è tanto la trasparenza dei finanziamenti della politica, quanto il diritto del cittadino alla privacy. Nel nostro Paese esso è nato negli anni Settanta, quando si scoprì che la Fiat da vent’anni aveva intrapreso una sistematica opera di censimento e schedatura dei dipendenti in funzione della loro adesione politica da cui conseguivano poi effetti pratici per il loro impiego in azienda. Lì si è capito che quel diritto andava tutelato proprio per consentire più libertà. Fu come una scossa, oggi ne serve un’altra.