Ricapitoliamo: se indossi i jeans non è possibile che ti abbiano stuprato (Cassazione, sentenza numero 1636-1999); se non urli con vigore ma dici solo ‘No’ (e nemmeno a voce molto alta) non è possibile che ti abbiano stuprato (tribunale di Torino, 2017); se si tratta di tuo marito e il rapporto è ‘completo’ non è possibile che ti abbiano stuprato (Cassazione, sentenza 2014); se hai bevuto e non sei stata costretta a ubriacarti il fatto che abbiano abusato di te non costituisce una aggravante, (Cassazione, sentenza 32462, 2018).
Giriamola come si vuole: nella maggioranza dei casi le donne se la vanno a cercare e lo stupro è colpa loro, come con leggerezza amara sostiene il gruppo indiano Aib nel loro video “It’s your fault”.
Attenzione: questa tesi, condivisa da buona parte del popolo di haters che prolifera on line, è in parte sostenuta della Cassazione italiana, che, come si legge nella sua definizione solenne, è “al vertice della giurisdizione ordinaria italiana. Tra le principali funzioni vi è quella di assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni”. Chi volesse ripassare la storia delle sentenze più misogine emesse dalla Cassazione può andare al sito di Globalist, nel quale sono riassunte le migliori di questi anni
Appare chiaro che il massimo organo della giustizia italiana non si è mai mosso, in quarant’anni, dalla posizione sostenuta nel 1979 dagli avvocati che difesero a Latina quattro uomini accusati di violenza sessuale su una giovane donna, che conosceva uno di loro e si fidò dell’invito fattole da questo per discutere di un possibile lavoro.
Il processo, filmato dal gruppo di registe della Rai coordinato da Loredana Rotondo, fu trasmesso il 26 aprile del 1979, dimostrando senza ombra di dubbio che nei tribunali italiani le vittime di stupro diventavano, in un oplà, imputate responsabili della violenza che avevano subìto. Di più: ne erano le istigatrici, per il solo fatto di esistere, respirare, fidarsi, avere un corpo, magari giovane e vitale.
Eppure la legge numero 66 del 15 febbraio 1996, parla chiaro: “Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni”. Nessun articolo della legge sulla violenza sessuale fa alcun cenno all’obbligo, per la donna violentata, di “difendersi con tutte le forze”; nessun comma ritiene che, in un processo per stupro, si possano usare termini come “logico” o “illogico” per giudicare l’eventuale atteggiamento passivo di una vittima di violenza sessuale.
Eppure eccoci qui oggi, a indignarci (nuovamente) contro l’ultima pronuncia che nega l’aggravante per gli stupratori causata dallo stato di alterazione alcolica della vittima. Di nuovo, se sei ubriaca e abusano di te, ti avranno sì fatto violenza, ma siccome avevi bevuto e quindi ti eri messa in pericolo ciò significa che sei, almeno in parte, responsabile del tuo stupro. Il ribaltamento da vittima a responsabile della violenza accade solo nel caso di violenza sessuale: mai in altre fattispecie di reato, e questo dovrebbe farci riflettere, così come dovrebbe preoccupare un paese civile se la sua giustizia sentenzia in questo modo. Bere fino a stordirsi, rischiare di essere preda di altri, è un errore tragico, ed è indispensabile che l’educazione che impartiamo ai nostri figli e figlie sia rigorosa e attenta a sottolineare di non abusare mai di sostanze che mettano in pericolo la lucidità.
Ma come è possibile che, se si tratta di violenza sulle donne, questo ripugnante abuso diventi quasi sempre un boomerang che colpisce la vittima e mette in ombra le responsabilità dell’abusante? A chi minimizza, teorizza e sottilizza con i frusti se e ma di questa tragica perversione che è la violenza sulle donne, nella quale la sessualità maschile piega il piacere al potere, potrebbe essere utile vedere la breve clip di Psicologia applicata Se l’è andata a cercare insieme a Oppressed majority, due esempi di paradosso per riflettere sull’atroce colpevolizzazione della vittima.
Triste e penoso ripubblicare le parole dell’arringa di Tina Lagostena Bassi, pronunciate dall’avvocata a Latina, nel 1979: triste e penoso perché ogni parola di allora non ha perso attualità, valore e necessitò, purtroppo.
“Vi diranno gli imputati, svolgeranno quella che è la difesa che a grandi linee già abbiamo capito. Io mi auguro di riuscire ad avere la forza di sentirli – non sempre ce l’ho, lo confesso – di avere la forza di sentirli, e di non dovermi vergognare, come donna e come avvocato, per la toga che tutti insieme portiamo. Perché la difesa è sacra, ed inviolabile, è vero. Ma nessuno di noi avvocati – e qui parlo come avvocato – si sognerebbe d’impostare una difesa per rapina così come s’imposta un processo per violenza carnale. Nessuno degli avvocati direbbe nel caso di quattro rapinatori che con la violenza entrano in una gioielleria e portano via le gioie, i beni patrimoniali sicuri da difendere, ebbene, nessun avvocato si sognerebbe di cominciare la difesa, che comincia attraverso i primi suggerimenti dati agli imputati, di dire ai rapinatori Vabbè, dite che però il gioielliere ha un passato poco chiaro, dite che il gioielliere in fondo ha ricettato, ha commesso reati di ricettazione, dite che il gioielliere un po’ è un usuraio, che specula, che guadagna, che evade le tasse!
Ecco, nessuno si sognerebbe di fare una difesa di questo genere, infangando la parte lesa soltanto. E nessuno lo farebbe nemmeno nel caso degli espropri proletari – ma questi sono avvocati che certamente non difendono nessuno che fa esproprio proletario. Ed allora io mi chiedo, perché se invece che quattro oggetti d’oro, l’oggetto del reato è una donna in carne ed ossa, perché ci si permette di fare un processo alla ragazza? E questa è una prassi costante: il processo alla donna, la vera imputata è la donna. E scusatemi la franchezza, se si fa così, è solidarietà maschilista, perché solo se la donna viene trasformata in un’imputata, solo così si ottiene che non si facciano denunce per violenza carnale“.