di Andrea Ottolini*
Si sente spesso parlare, in relazione alle assenze per malattia, di “periodo di comporto”. Si tratta di un tema su cui la giurisprudenza è intervenuta a più riprese: ancora recentemente, ad esempio, la Corte di Cassazione ha deciso che il datore di lavoro, una volta indicati i giorni di assenza per malattia, è a quelli vincolato nel calcolo del periodo di comporto; o ancora ha affermato che il licenziamento intimato al lavoratore prima della scadenza del periodo di comporto è nullo.
Ma che cosa significa? Cos’è il “periodo di comporto”? Facciamo un passo indietro: come noto il lavoratore durante lo stato di malattia ha diritto alla conservazione del posto di lavoro. Questo diritto non è però illimitato, ma è riconosciuto per un periodo di tempo individuato dai contratti collettivi (e in realtà, per quanto riguarda gli impiegati, anche dalla legge), per l’appunto il “periodo di comporto”.
Durante questo periodo il datore di lavoro può licenziare il lavoratore assente per malattia solo – in linea di massima – per giusta causa (cioè per un comportamento del lavoratore che abbia un notevole rilievo disciplinare), per totale cessazione dell’attività dell’impresa oppure in caso di malattia irreversibile (cioè quella malattia tale da rendere certo che il dipendente non potrà riprendere la normale attività lavorativa).
Questo significa che – salvo i casi di cui sopra – se il periodo di comporto previsto dal contratto collettivo applicato a un lavoratore è di 180 giorni, questi potrà essere licenziato soltanto al 181° giorno consecutivo di assenza per malattia (in caso di comporto “secco”, cioè previsto per un’unica malattia ininterrotta) o al 181° giorno di malattia in un certo arco temporale (e in questo caso si parla di comporto “per sommatoria”, per cui si vanno a sommare tutti giorni di assenza per malattia – anche se non consecutivi e relativi a diverse malattie – in un certo periodo di tempo, di solito l’anno solare).
Una volta scaduto il periodo di comporto invece, se il lavoratore non rientra al lavoro, il datore di lavoro può procedere al licenziamento, senza necessità di alcuna motivazione ulteriore rispetto al superamento del comporto. Si tratta ovviamente di una facoltà per il datore di lavoro e non di un obbligo. Tuttavia se il datore di lavoro decide di procedere con il licenziamento, dovrà farlo tempestivamente; al contrario l’inerzia del datore di lavoro potrebbe essere intesa come una rinuncia a risolvere il rapporto.
Il lavoratore, una volta scaduto il periodo comporto, non ha quindi modo di salvarsi da un licenziamento? Non è proprio così: da un lato, infatti, alcuni contratti collettivi prevedono che – una volta superato il periodo di comporto – il lavoratore possa chiedere un’aspettativa non retribuita e solo al termine di questa, in caso di mancato rientro, il datore di lavoro potrà procedere al licenziamento.
Dall’altro il lavoratore, esaurito il comporto o l’aspettativa, può chiedere al datore di lavoro di godere delle eventuali ferie che ha maturato: il datore di lavoro non è obbligato a concederle, ma un eventuale rifiuto dovrà essere adeguatamente motivato, dal momento che il datore di lavoro deve tenere in considerazione l’interesse del lavoratore al mantenimento del posto di lavoro.
Infine, è opportuno ricordare che se lo stato di malattia è stato causato dal comportamento del datore di lavoro (ad esempio mobbing), i giorni di assenza non dovrebbero essere conteggiati nel periodo di comporto e un licenziamento intimato per superamento del comporto potrebbe essere dichiarato illegittimo; è il lavoratore a dover provare il comportamento illecito del datore di lavoro (nell’esempio il mobbing) e il nesso causale tra il comportamento illecito e l’assenza per malattia.
E le due sentenze della Corte di Cassazione citate in apertura di questo post?
1. Con la prima (Cass. 15095/18) la Corte ha stabilito che seppur il datore di lavoro non sia tenuto a specificare i giorni di assenza di malattia (salva esplicita richiesta del lavoratore), una volta indicati i giorni di assenza nella lettera di licenziamento, essi non possono più essere modificati: la verifica sulla legittimità del licenziamento andrà quindi valutata in relazione a quei giorni, e non potranno essere utilizzati giorni diversi di assenza. In caso di modifica dei giorni il licenziamento è quindi illegittimo, anche se il lavoratore aveva in effetti usufruito dell’intero periodo di comporto.
2. Nella seconda sentenza (Cass. 12568/18) le Sezioni unite si sono pronunciate mettendo fine a un contrasto (forse più apparente che reale, leggendo la motivazione resa) interno alla stessa Corte, affermando che il licenziamento per superamento del periodo di comporto è legittimo solo se intimato dopo la scadenza del periodo di comporto, mentre il licenziamento intimato prima della scadenza è nullo, anche se in seguito il lavoratore ha effettivamente superato il periodo di comporto: la valutazione va fatta al momento dell’intimazione del licenziamento, e non può tenere conto di quanto accaduto successivamente.
*Avvocato giuslavorista in Milano, socio Agi (Associazione giuslavoristi italiani)