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Migranti, un rifugiato in Italia: nei Cas pochi corsi di lingua o lavoro, poi finisci in strada. ‘Sistema non crea integrazione’

Nei Centri di accoglienza straordinaria si trova l’80% dei 170mila richiedenti asilo e rifugiati, dove ci sono minori possibilità statistiche di ricevere formazione. Chi ottiene asilo politico poi finisce fuori dal circuito di accoglienza. Schiavone, presidente del consorzio Ics di Trieste: "Abbassare la diaria da 35 a 20 euro? Non sono soldi sufficienti per un’accoglienza degna"

Via Curtatone a Roma. I giardini di piazza Oberdan a Milano. L’Ex-Moi a Torino. Via Luca Giordano a Firenze. O ancora la baraccopoli di San Ferdinando a Reggio Calabria o il Gran Ghetto di Borgo Mezzanone, a Foggia. Ci vivono o ci hanno vissuto Waris, Mohammed, Cheickh, Mustapha e tanti altri, persone per la maggior parte con in mano un valido documento d’identità in quanto rifugiati. Eppure, paradossalmente, quando in Italia viene riconosciuto il pieno diritto di restare, si finisce fuori dal circuito di accoglienza: in strada o in occupazioni.

Dopo uno sbarco, un migrante finisce in uno degli hotspot italiani, centri dove avviene una prima identificazione. Se ha la fortuna di rientrare nel 20% del sistema d’accoglienza “ordinario”, a quel punto passa da un Centro di prima accoglienza a uno Sprar (Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati). Altrimenti può andare direttamente a un Cas (Centri di emergenza straordinaria), dove avrà minori possibilità statistiche di ricevere formazione linguistica e lavorativa. I Cas sono strutture concepite come temporanee, mentre i centri Sprar sono centri di seconda accoglienza, dove vengono forniti strumenti per l’inserimento nel tessuto sociale italiano. Nei Cas però si trova l’80% dei 170mila richiedenti asilo e rifugiati (censiti, quindi una stima al ribasso) che si trovano oggi in Italia.

Nella stragrande maggioranza dei bandi prefettizi con i quali vengono aperti i Cas non viene previsto dai requisiti tecnici la fornitura di corsi di lingua o di inserimento lavorativo: ci sono solo servizi di mediazione linguistica e culturale, di informazione sulle possibilità di asilo, assistenza psicologica, vitto e alloggio. L’integrazione non è nella loro missione. Non può esserlo con diarie ai centri così basse. Il tutto, infatti, in media è pagato sui 30 euro al giorno, prezzo corrisposto dal ministero al centro d’accoglienza, via Prefettura, per ogni migrante.

Per lo Sprar il pagamento è diverso, passa dai Comuni che ospitano le strutture. Gli analisti sostengono che per garantire un servizio adeguato, il corrispettivo per ogni migrante dovrebbe essere intorno ai 40 euro, altrimenti non sarà di qualità. Infatti questa diaria non va al migrante, ma alla struttura che deve garantirne l’accoglienza. Al singolo restano 2,5 euro di pocket money, spendibili per piccole necessità. Per iniziare a cercare lavoro, l’ospite deve attendere almeno due mesi, per legge, anche se in media solo chi è entrato nei meccanismi dell’accoglienza riesce a trovarlo. È il tempo che dovrebbe essere sfruttato per cominciare le lezioni di lingua.

Chi ottiene asilo politico mentre si trova in un Cas, secondo un’interpretazione della legge dovrebbe rientrare negli Sprar per almeno sei mesi, tempo necessario almeno per cominciare corsi di formazione e di italiano, il minimo per diventare indipendenti e non gravare più sul welfare cittadino. Ma le prefetture potrebbero dare una lettura più restrittiva della legge e obbligare un rifugiato a uscire subito dal sistema d’accoglienza. Come per altro accade nella maggioranza dei casi, se non altro per l’insufficienza dei 30mila posti Sprar, sempre pieni.

Risultato? L’immagine da cui siamo partiti: vivono in strada, diventano schiavi dei campi del Sud Italia o dei cantieri edili. Vivono in baraccopoli o occupazioni delle grandi città. Nuovi poveri, nuovi emarginati. “Il sistema di accoglienza italiano non è concepito per creare integrazione sociale”. In una frase, questo è il principale problema delle strutture per migranti in Italia: non creano possibili nuovi cittadini, solo nuovi emarginati. Lo sostiene Gianfranco Schiavone, presidente del consorzio Ics di Trieste e vicepresidente di Asgi, Associazione studi giuridici per l’immigrazione. “Capita che ai rifugiati venga tolta anche la residenza – prevista una volta che si entra nei Cas – e non vengano iscritti all’anagrafe per paura che qualcuno possa rivolgersi a servizi comunali per l’assistenza”, aggiunge Schiavone. “Nel clima di xenofobia che c’è oggi, a dirlo si rischia di essere linciati, ma gli studi di settore dicono che i tempi per l’integrazione sono almeno di un biennio”, prosegue.

Sull’ipotesi di abbassare la diaria dei centri d’accoglienza da 35 a 20 euro proposta dal Viminale, la sua idea è chiara: “Non sono soldi sufficienti per un’accoglienza degna. Il risultato sarebbe una catastrofe sociale: non sarebbero erogati i servizi minimi, come i corsi di lingua e i tirocini, che invece oggi ci sono in diverse strutture Sprar. Saremmo solo alla distribuzione di un rancio, sotto un tetto. Chi propone queste cose o non se ne rende conto o ha nelle sue intenzioni creare questa bomba sociale. Non posso escluderlo”. Per funzionare meglio e sprecare meno risorse (oggi la gestione dei flussi, dagli sbarchi ai centri, costa 4,3 miliardi di euro) il sistema dell’accoglienza dovrebbe spendere di più in integrazione, secondo il numero due di Asgi.

Per quanto inadatto e insufficiente, infatti, il sistema d’accoglienza non è totalmente allo sfascio. Ci sono storie di integrazione, concluse con migranti che riescono ad essere indipendenti sul piano economico abitativo. “Migranti” e non necessariamente rifugiati, visto che non esistono sostanzialmente delle vie legali per un migrante che vuole cercare lavoro in Italia se non quella di arrivare e fare domanda d’asilo.

In media, circa la metà di chi chiede asilo avrà almeno una forma di protezione (cioè un permesso di soggiorno temporaneo o lo status di rifugiato). “Il fallimento più grande è quando un migrante che era riuscito a trovare un lavoro diventa irregolare dopo tre-quattro anni di permanenza in Italia e deve andarsene”, commenta Schiavone. Un caso frequente, che si verifica perché non è possibile convertire un permesso di soggiorno per richiesta asilo in un permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Questo aumenta la sacca dei “clandestini” (come li chiama Matteo Salvini): infatti prima che il rimpatrio sia effettivo, un migrante irregolare deve prendere un foglio di via la prima volta che viene fermato per qualunque motivo e deve essere identificato dal suo Paese, con il quale l’Italia deve avere in essere un accordo bilaterale per i rimpatri. In tutto, gli accordi bilaterali sono solo con otto.

Ad aprile 2017, è entrato in vigore il decreto Minniti-Orlando titolato “Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché misure per il contrasto dell’immigrazione illegale”. Secondo il presidente di Asgi, la stretta di Salvini è in continuità con la linea presa già da Minniti. L’unico effetto positivo del decreto, a detta di Schiavone, si vedrà solo con l’introduzione delle nuove corti specializzate che dovranno valutare le richieste d’asilo, il cui inizio è previsto da luglio. Invece Asgi ha sempre criticato fortemente la cancellazione della possibilità di fare appello al diniego della richiesta d’asilo. Questo ha ridotto leggermente i tempi di decisione media di una domanda, sulla quale però un giudizio viene espresso solo dopo sei-otto mesi di presenza in Italia. Difficile, quindi, che chi entra nel sistema di accoglienza ci resti per meno di un anno e mezzo, anche due.

A fine ottobre 2017 un decreto del ministero dell’Interno istituiva l’obbligo di rendicontazione anche per i Cas, per consentire “il superamento del gestore unico, la tracciabilità dei servizi, nonché poteri ispettivi da parte del ministero”. Un provvedimento positivo ma che arriva comunque tardi.