Nel giorno del ventiseiesimo anniversario della strage di via d’Amelio pubblichiamo un estratto del libro La Repubblica delle Stragi, edito da Paper First, e a cura di Salvatore Borsellino. Il paragrafo proposto è intitolato I pezzi mancanti nella fase esecutiva della strage. “Un’opera preziosissima, a metà strada fra la memoria e lo scavo, fra gli archivi giudiziari e quelli giornalistici, per dissotterrare le verità indicibili. Una controstoria d’Italia senza inutili dietrologie né complottismi d’accatto: solo fatti documentati e raccontati, per la prima volta, con uno sguardo d’insieme che rende il quadro ancor più impressionante”, l’ha definita nella prefazione il direttore del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio. Il libro sarà presentato il pomeriggio del 19 luglio alle ore 18 in via d’Amelio. Per l’occasione interverranno oltre a Salvatore Borsellino, i magistrati Roberto Scarpinato e Giovanni Spinosa, il vicedirettore del Fatto Marco Lillo, l’avvocato Fabio Repici e il giornalista Giuseppe Lo Bianco.
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I pezzi mancanti nella fase esecutiva della strage
Dopo venticinque anni di indagini e processi (fino alla sentenza del Borsellino Quater del 20 aprile 2017) sulla strage di via D’Amelio, rimangono ancora molti vuoti che impediscono di dare un volto a tutti i responsabili. Le lacune riguardano soprattutto i “mandanti esterni” all’organizzazione Cosa nostra ma anche alcune fasi esecutive della strage. E forse non è un caso che, malgrado l’apporto di importanti collaboratori di giustizia, queste fasi siano rimaste oscure. Un aspetto mai del tutto chiarito riguarda l’identità di chi azionò il telecomando che fece esplodere l’autobomba. Per la strage di Capaci, almeno nella ricostruzione processuale, il quadro fu subito chiaro grazie alla collaborazione prima di Santino Di Matteo e poi di Giovanni Brusca.
Dal luglio 1992 a oggi si sono pentiti decine di mafiosi che, in un modo o nell’altro, ebbero un ruolo nella deliberazione e nella pianificazione della strage di via D’Amelio, eppure, ancora non si è riusciti a individuare con certezza chi azionò l’ordigno.
Le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Fabio Tranchina e Giovan Battista Ferrante, che hanno portato la Procura di Caltanissetta guidata da Sergio Lari a sostenere, ma solo in via deduttiva, che fu Giuseppe Graviano ad azionare la carica dal giardino-agrumeto che delimita via D’Amelio, non assicurano certezze. È ragionevole che gli stragisti abbiano
corso il rischio che qualche condomino potesse accorgersi degli atteggiamenti sospetti di una persona (o addirittura di più persone) che si aggirava dalla mattina nel giardino? Ancora: è ragionevole che gli attentatori si siano esposti all’onda d’urto generata dalla deflagrazione, che ha provocato danni devastanti ai palazzi circostanti?
A corroborare queste perplessità, ricorre un altro elemento: a ridosso del giardino-agrumeto era situato un palazzo di dodici piani, appena edificato dalla ditta dei fratelli Graziano. Due agenti della Criminalpol di Catania tornarono per un sopralluogo nel palazzo la mattina del 20 luglio 1992 e si imbatterono in due dei fratelli Graziano, che scoprirono
essere schedati come mafiosi. Avevano appena deciso di fermarli per identificarli formalmente quando arrivò una squadra della Criminalpol di Palermo che li sollevò dall’incarico. I due, tornati in Questura, stilarono una relazione di servizio dettagliata ma il giorno dopo ricevettero l’ordine di rientrare alla sede d’origine e il loro rapporto sparì dalla Questura di Palermo. I fratelli Graziano e le loro imprese fanno parte della storia di Cosa nostra palermitana, fino a epoca recente, per i loro legami con le famiglie Madonia e Galatolo. A intorbidare le acque sul palazzo dei Graziano si aggiunsero le dichiarazioni degli operatori delle forze dell’ordine intervenuti sul luogo, discordanti rispetto a quanto accertato dai rilievi e dalle foto allora scattate sul posto. I pubblici ministeri di Caltanissetta il 26 marzo 2012 dichiararono alla Commissione antimafia che «quella pista, che appariva concreta all’epoca, venne poi inspiegabilmente abbandonata».
Dichiarazioni inquietanti – e ancora tutte da riscontrare – sulla possibile identità della persona che utilizzò il telecomando in via D’Amelio sono state in tempi più recenti rilasciate dal pentito ’ndranghetista Nino Lo Giudice, la cui collaborazione con la giustizia si è sviluppata tra alti e bassi: secondo Lo Giudice, a premere il pulsante fu il poliziotto in congedo Giovanni Aiello, “faccia da mostro”, indicato da più fonti come presente su alcuni dei luoghi dei crimini più efferati commessi da Cosa nostra.
Altra identità rimasta sconosciuta è quella delle persone che, dal garage, portarono la Fiat 126 imbottita d’esplosivo in via D’Amelio, parcheggiandola sotto casa di Rita Borsellino. Nessun collaboratore di giustizia si è dichiarato a conoscenza di alcun dettaglio. L’ultimo grande buco nero, infine, riguarda le modalità attraverso cui Cosa nostra conobbe gli spostamenti di Paolo Borsellino quella domenica. Il motivo per cui fu scelto il luogo della strage non è difficile da comprendere, vista l’assenza di protezione e addirittura di una zona rimozione davanti al palazzo di via D’Amelio 19. Nonostante gli uomini delle scorte avessero ripetutamente chiesto che venissero approntate adeguate misure di sicurezza in quel sito e nonostante il 2 giugno precedente la madre di Borsellino avesse denunciato movimenti sospetti nel giardino-agrumeto, nessuna iniziativa fu presa dalle autorità per mettere via D’Amelio in sicurezza.
Mentre la pista dell’intercettazione abusiva ha tenuto banco nei primi processi sulla strage di via D’Amelio, i pubblici ministeri di Caltanissetta che si sono occupati delle indagini nate dalle dichiarazioni di Spatuzza hanno portato avanti un’ipotesi totalmente diversa: Cosa nostra avrebbe studiato le abitudini del giudice e individuato quella a loro favorevole, le settimanali visite alla madre, sempre di domenica mattina. L’arrivo di Paolo Borsellino a via D’Amelio nel pomeriggio, però, fu un’anomalia rispetto alle precedenti settimane ed è davvero difficile ipotizzare che gli stragisti abbiano operato senza conoscere nulla degli accordi (stabiliti tutti per telefono) fra Paolo Borsellino e la madre.