Nonostante le sonore sconfitte a carico del variegato milieu radical chic – inversamente proporzionali alle vittorie non solo elettorali di tutti coloro che a questa forma di radicalismo si oppongono invalidandone l’approccio manicheo, i buoni da una parte e i cattivi dall’altra, ove per buoni si intendono coloro che continuano ossessivamente a “coscienzializzare” il volgo, il quale risponde in modo diametralmente opposto – l’approccio radical chic continua a imperversare indefesso, come nel caso del pezzo su Fatto cartaceo di pochi giorni fa titolato La lezione perduta delle leggi razziali, in cui Furio Colombo arriva a equiparare le leggi razziali del ’38 con un supposto razzismo italiano di ritorno che “pone adesso bianchi contro neri, cittadini contro stranieri, paura attentamente coltivata, che crede nei confini chiusi”.
Se c’è un aspetto che non ho mai notato negli italiani è il razzismo, almeno nelle forme da me ravvisate in taluni stati del sud degli Stati Uniti e in specifici ceti sociali di alcune zone del Brasile. A proposito del quale, per quanto mi riguarda personalmente, a suo tempo e in Italia sposai una mulatta brasiliana non perché l’amassi, ma al solo scopo di aiutarla a inserirsi in un contesto culturale troppo distante da quello della favela da cui proveniva. Un matrimonio breve ordunque che terminò con un procedimento di divorzio durante lo svolgimento del quale, la mia ex moglie prossima ventura, alla giudice che le chiedeva se era proprio sicura di non pretendere alcun alimento post matrimoniale, rispose che alla luce dell’aiuto che le avevo prestato, la sua richiesta sarebbe stata inappropriata.
Dal razzismo al fascismo il passo è retoricamente breve, tanto è vero che Furio Colombo vi si (ri)ferisce paragonando le leggi razziali del fu fascismo, con la supposta situazione in cui si baserebbe la “difesa della razza” – il virgolettato è di Colombo – “In Italia il razzismo che torna pone adesso bianchi contro neri, cittadini contro stranieri, paura, attentamente coltivata, che crede nei confini chiusi” (…) ‘nell’Italia dei nostri giorni’ a partire dalla “parola d’ordine prima gli italiani, che è un grimaldello potente per far saltare un minimo di legame tra residente e straniero” (…) mentre “ un secondo modo per avviarsi verso la completa estirpazione di sentimenti umani è di lanciare il famoso grido di disprezzo verso i non razzisti: ‘Allora prendete i profughi in casa vostra’ ”. Una frase “ che non nasce da un rigurgito di rabbia di strada, ma da un partito diventato governo e potente istituzione” (…) “una trovata che punta a scansare l’accusa di irresponsabilità e a far apparire fatui e boriosi coloro che scendono in campo nel tentativo di difendere. Il loro numero diminuisce costantemente”.
L’unico passaggio che condivido è la citazione della frase rigurgitata da un partito di governo: “Allora prendete i profughi in casa vostra!”. Un grido che venne pronunciato anche nell’affluente Capalbio dei radical chic, ma non da persone più modeste come il sottoscritto, che spesso si ritrova a strillare il fatidico “Allora prenditeli a casa tua!” a radical chic che si guardano bene dall’ospitare rifugiati, salvo poi salmodiare a terzi meno abbienti l’obbligo di aiutare i rifugiandi, dopo aver rimosso dalle loro coscienze i sei milioni di italiani al di sotto della soglia di povertà, nonché gli altri quattro milioni che la superano di stretta misura.
Sul Fatto on line di qualche mese fa, un post riservato a un’associazione liberale iniziava più o meno così: “… chi afferma di non essere né di destra né di sinistra è di destra…”. L’assunto mi irritò perché, pur avendo fatto parte dell’estrema sinistra durante l’(im)mortale ‘68, in seguito all’abuso che s’è fatto del termine “de sinistra” me ne distanziai. Il fatto che oggi non mi consideri più tale, non significa tuttavia che mi identifichi con la destra tout court, oggi tacciata di fascismo a ogni piè sospinto, visto & considerato che essendo nato nel ’43 in una famiglia antifascista doc, certe posizioni proprio non mi appartengono.
Mio padre venne torturato a Villa Triste pur ignorando che sua madre, cioè mia nonna, avesse destinato la sua magione fiesolana al salvataggio di ebrei, nonostante la stessa villa fosse stata sequestrata dal capo delle SS, ignaro che in quei meandri transitassero giudei in fuga dal nazifascismo. Dopo la guerra i miei si separarono e mia madre che pur aveva fatto parte del Partito d’Azione, si accasò con Giuseppe Baylon, già capo di Stato maggiore dell’areonautica saloina il quale, in quanto afascista, vale a dire né fascista né antifascista, venne arrestato dalle Ss e dopo la Liberazione venne processato da un tribunale speciale che lo assolse per non aver commesso il fatto, riconoscendogli il merito d’aver osteggiato il massacro da parte dei tedeschi dell’intera popolazione italiana, saloina o non saloina che fosse stata.
E fu proprio questo afascista doc che per primo ebbe a citarmi Renzo de Felice quando afferma che “ il fascismo ha fatto infiniti danni, ma uno dei danni più grossi è stato quello di lasciare in eredità una mentalità fascista ai non fascisti, agli antifascisti, alle generazioni successive anche più decisamente antifasciste a parole. Una mentalità fascista che va secondo me combattuta in tutti i modi, perché pericolosissima. Una mentalità di intolleranza, di sopraffazione ideologica, di qualificazione dell’avversario per distruggerlo”. Come dire che il peggior fascismo è quello degli antifascisti (copyright Ennio Flaiano).