Nonostante il rito abbreviato, i giudici di secondo grado non hanno concesso sconti di pena al termine del processo “Kyterion”, nato dall’inchiesta parallela all’operazione “Aemilia” che ha svelato gli interessi in Emilia Romagna della cosca crotonese
Se in primo grado aveva preso 30 anni, la Corte d’appello di Catanzaro ha stabilito che il boss di Cutro Nicolino Grande Aracri dal carcere non ci deve più uscire. Nonostante il rito abbreviato, infatti, i giudici di secondo grado non hanno concesso sconti di pena e lo hanno condannato all’ergastolo al termine del processo “Kyterion”, nato dall’inchiesta parallela all’operazione “Aemilia” che ha svelato gli interessi in Emilia Romagna della cosca crotonese.
Accogliendo le richieste del pm Domenico Guarascio, la Corte d’Appello ha giudicato Nicolino Grande Aracri colpevole dell’omicidio del boss Antonio Dragone ucciso nel maggio 2004. Per lo stesso delitto, è stato condannato all’ergastolo anche al fratello, Ernesto Grande Aracri, che in primo grado era stato condannato a 24 anni di carcere. Il “capo società” di San Mauro Marchesato, Angelo Greco, è stato invece condannato a 30 anni.
Sono queste le principali pene al termine del processo d’appello nato dall’inchiesta che ha consentito alla Dda di Catanzaro di aprire uno squarcio su tutte le attività della cosca Grande Aracri. Il boss adesso dovrà attendere la sentenza di Cassazione che, se dovesse confermare, lo condannerà al carcere a vita. Per i magistrati, oltre all’omicidio Dragone, don Nicolino è responsabile di associazione mafiosa ed estorsione. Era capo di una “provincia” di ‘ndrangheta che non si limitava al solo territorio crotonese. Piuttosto la sua cosca aveva influenza anche nella Sibaritide, nella zona di Catanzaro e del Vibonese. I suoi tentacoli arrivavano pure in Emilia Romagna dove i Grandi Aracri rivendicavano autonomia anche rispetto alle cosche reggine.
Stando alle indagini, gli imputati volevano accaparrarsi i lavori sulla statale 106 e sui parchi eolici, ma anche la gestione di villaggi turistici come quello di “Capopiccolo” a Isola Capo Rizzuto.
Le inchieste “Kyterion” ed “Aemilia”, oltre a ricostruire, i vari ruoli all’interno della famiglia mafiosa di Cutro, hanno il merito di aver fatto luce sulle entrature di don Nicolino Grande nei palazzi che contano: dalla massoneria al Vaticano passando per la Corte di Cassazione.
Per i pm, infatti, la cosca di Cutro ha cercato di aggiustare un processo a Roma per far annullare la decisione del Tribunale del Riesame di Catanzaro che aveva confermato l’arresto per Giovanni Abramo, cognato del boss Grande Aracri. Quella sentenza è stata annullata con rinvio dalla Cassazione ma la Dda non era riuscita ad accertare il coinvolgimento di un magistrato.
Nel gennaio 2015 era stato arrestato un ex maresciallo dei carabinieri poi diventato avvocato, Benedetto Stranieri, che giovedì è stato condannato a 4 anni di carcere per concorso esterno con la ‘ndrangheta. Secondo i magistrati, Stranieri avrebbe avvicinato “soggetti gravitanti in ambienti giudiziari della Corte di Cassazione, anche remunerandoli, al fine di ottenere decisioni giudiziarie favorevoli ad Abramo Giovanni”.
Durante le perquisizioni, i carabinieri avevano trovato un conto corrente con la disponibilità di 200 milioni di euro. Era la cassaforte del boss che era in possesso pure di una “fideiussione finalizzata (almeno in un caso) all’aggiudicazione di un appalto milionario, per la costruzione di appartamenti in Algeria”.
Ritornando alla sentenza, la Corte d’Appello ha disposto il risarcimento per l’associazione antimafia Libera che si è costituita parte civile nel processo “Kyterion”. Lo aveva fatto anche la Regione Calabria che, durante il processo di primo grado, però ha dimenticato di mandare un avvocato davanti al gup perdendo così ogni diritto a essere risarcita da uno dei più importanti clan calabresi.