Lo statuto del Partito Democratico prevede che chi ricopre una carica deve versare al partito stesso il 10 per cento della propria indennità. Il tesoriere Bonifazi: "Le regole valgono per tutti. Oppure non sono regole". "Di certo c'è che nessuno mi ha mai chiesto una determinata cifra mensile nel corso di tutta la scorsa legislatura" fa sapere il diretto interessato in una nota
Il tribunale di Roma ha emesso un decreto ingiuntivo nei confronto dell’ex presidente del Senato Pietro Grasso, che dovrà dare 82mila euro di contributi mai pagati al Partito Democratico. Lo conferma il tesoriere del Pd Francesco Bonifazi su un post su Facebook: “Le regole valgono per tutti. Oppure non sono regole – scrive – E le regole vanno rispettate, sempre”. “Su 63 richieste di decreto da noi avanzate – ha riferito Bonifazi all’Ansa – il giudice li ha emessi praticamente quasi tutti. Noi abbiamo preso l’impegno, durante l’approvazione del bilancio, di destinare tutti questi soldi a sostegno dei nostri lavoratori in cassa integrazione“.
“Non ho ancora ricevuto alcuna notifica di decreto ingiuntivo, quindi non so su quali basi possa essere stato emesso. Di certo c’è che nessuno mi ha mai chiesto una determinata cifra mensile nel corso di tutta la scorsa legislatura” fa sapere il diretto interessato Pietro Grasso in una nota. Il leader di LeU dichiara di aver contattato nuovamente due giorni fa il tesoriere del Pd, proprio al fine di evitare il contenzioso, ma evidentemente “ha bisogno di scaricare su altri le colpe della sua pessima gestione, e provare a trasformarle in un mezzo strumentale e propagandistico“. L’ex presidente del Senato conclude la nota affermando che, una volta che gli sarà consegnato il decreto, farà opposizione.
La vicenda ha avuto inizio nel dicembre dell’anno scorso, quando Bonifazi aveva reclamato i contributi dei parlamentari eletti con il Pd – poi transitati in Mdp – mai versati. Lo statuto del partito prevede che chi ricopre una carica deve versare al partito il 10 percento della propria indennità: indennità che Bonifazi sosteneva aver calcolato in riferimento al periodo in cui “i colleghi hanno mantenuto la loro adesione al Pd, non oltre”. I soldi sarebbero stati destinati ai lavoratori in cassa integrazione, perché anche i “lavoratori sono liberi e uguali”, aveva scritto Bonifazi su Facebook. E il riferimento non è casuale: all’ex presidente del Senato e leader di Leu Pietro Grasso erano stati chiesti, appunto, 83mila auro di contributi arretrati.
La richiesta era stata definita da Grasso “un colorito quanto basso espediente da campagna elettorale”, in una lettera pubblicata su Repubblica. Nel testo indirizzato al tesoriere del Pd, l’ex presidente del Senato aveva dichiarato di non aver mai ricevuto alcuna comunicazione in merito alle quote da versare, né sulle modalità di pagamento da seguire, nonostante le 56 mensilità trascorse dalle sue dimissioni dal gruppo Pd. Ancor di più, aveva sostenuto il fatto che fosse inopportuno per la carica istituzionale ricoperta dare un sostegno al partito con soldi pubblici, “così come per prassi centenaria non è chiamato a dare col voto alcun contributo politico“. E infine aveva chiesto a Bonifazi un chiarimento sui “circa 250mila euro che il gruppo del Pd in Senato ha percepito dal marzo del 2013 al 26 ottobre del 2017 in ragione della mia iscrizione al gruppo medesimo”.
Non solo Grasso, e non solo fuoriusciti: tra i nomi nei 63 decreti richiesti dal Pd spiccano quelli dell’ex sottosegretario al Welfare Angelo Rughetti – debitore di circa 22.500 euro – e quello di Nicola La Torre – al Pd deve 10.500 euro. Folta la truppa che sulle orme di Grasso è andata in Leu senza saldare i conti col partito che li aveva eletti: Elisa Simoni – 49mila euro – Demetrio Battaglia – 79mila euro – e Piero Martino – 68mila euro. Nell’elenco dei debitori c’è anche l’ex responsabile cittadinanza Khalid Chaouki, debitore di 70mila euro.
Diffide e ingiunzioni sono partite anche nei confronti di esponenti del partito democratico eletti nella scorsa legislatura, salvo deroghe. Bonifazi stesso ha ricordato, infatti, che per l’attuale legislatura non venivano accolte candidature in caso di morosità, salvo la sottoscrizione di un impegno al pagamento. Opzione che valeva come garanzia di volersi “mettere in regola” e costituendo la premessa per un decreto immediatamente esigibile – sottoscritto da diversi esponenti, come Simone Valiante, con un debito di 53mila euro.