Sergio Marchionne arriva alla guida del gruppo Fiat il primo giugno 2004. L’incarico è da fare tremare le vene ai polsi. Il manager italo-canadese si trova infatti alla guida di un gruppo sull’orlo del collasso. Ricavi in calo, vendite in caduta, modelli obsoleti. Tanti debiti, pochi profitti. Un possibile matrimonio con gli statunitensi di General Motors in crisi ancora prima di cominciare. L’ultimo bilancio dell’era pre-Marchionne è quello del 2003 a firma di Giuseppe Morchio. I ricavi si attestano a 47 miliardi di euro, 7 miliardi in meno del 2002. L’indebitamento netto è intorno ai 15miliardi. L’esercizio si chiude con perdite per circa 2 miliardi. Soprattutto il risultato operativo, ossia quello che la società incassa o prede con la sua attività industriale, è in rosso per mezzo miliardo.

Il primo colpo Marchionne lo mette a segno nel 2005. Il Lingotto ha stipulato negli anni precedenti un accordo il colosso statunitense General Motors che contiene tra l’altro un’opzione put a favore di Fiat. Il gruppo torinese può decidere di vendere tutto il suo capitale agli americani che in base all’opzione sono obbligati a comprare. GM però naviga a sua volte in acque difficili e portarsi a casa un gruppo in forte sofferenza è una prospettiva tutt’altro che allettante. Marchione negozia quindi un accordo che libera GM dai suoi obblighi verso Fiat in cambio di 2miliardi di euro. Ossigeno nelle casse esangui del gruppo e un tesoretto su cui iniziare a ricostruire la produzione. La vera svolta, il colpo da maestro, arriva però nel 2009 e sempre sul palcoscenico a stelle e strisce. L’industria statunitense dell’auto americana è in gravissima crisi. Chrysler soffre più di tutti. Si muove la Casa Bianca e Barack Obama da fiducia ai piani di Marchionne.

Di tasca sua Fiat non paga nulla ma porta a Chrysler tecnologie “pulite” per i motori e un piano di rilancio. L’operazione è strutturata in modo piuttosto complesso ma di fatto Fiat diventa gradualmente proprietaria di Chrysler e si trasforma in FCA (Fiat Chrysler Automobiles) gruppo quotato a Wall Street oltre che a Piazza Affari con cuore a Torino, testa a Detroit e portafoglio tra Londra e Olanda dove i regimi fiscali sono più favorevoli. A differenza di quello europeo, il mercato americano delle quattroruote si risolleva in fretta dalla crisi del 2008. E gli effetti si fanno sentire anche sui bilanci. L’ultimo, quello del 2017 segna ricavi per 110 miliardi di euro e profitti per 3,5 miliardi. La metà dei ricavi arriva dagli Stati Uniti, dove FCA vende circa 2 milioni di vetture l’anno. Soprattutto sono macchine che costano tanto e che garantiscono margini consistenti. Il marchio JEEP, portato in dote da Chrysler, macina ricavi e profitti. Le vendite nel Vecchio Continente si fermano a 1,5 milioni di vetture, di cui circa 560mila in Italia, con ricavi che sono però circa un terzo di quelli realizzati in Nord America.

L’altro grande capitolo del bilancio è quello relativo al Sudamerica dove FCA fattura circa 8 miliardi di euro ma dove le vendite non stanno più dando le soddisfazioni di qualche anno fa. Su 10 euro guadagnati da FCA quasi 9 arrivano dagli Stati Uniti, solo 1 dall’Europa. Quello che fa brillare il Lingotto, insomma, sono gli USA che compensano risultati non esaltanti in Europa e Sudamerica. Il gruppo ha oggi un debito finanziario lordo di circa 18 miliardi a fronte di un giro d’affari triplicato rispetto al 2004. Può inoltre contare su una liquidità di 12,6 miliardi e altri asset liquidi che portano l’indebitamento netto a 2,4 miliardi. Non solo, in una delle sue ultime apparizioni, lo scorso giugno, Marchionne ha posto l’obiettivo dell’azzeramento del debito già con la prossima semestrale che sarà diffusa il 27 luglio. Intanto gli azionisti gongolano. Negli ultimi 5 anni il valore dei titoli FCA è passato da 3,9 a 16,5 euro. Chi avesse investito 1000 euro nel 2013 si troverebbe oggi in tasca oltre 4 mila.

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