Dal santino del salvatore di Mirafiori al peggior nemico della Fiat italiana. Ma sempre nell’interesse degli Agnelli. “Devono tutto a Marchionne“, sostiene Giorgio Airaudo, che all’arrivo del manager al Lingotto era il numero uno della Fiom torinese e lo è stato per tanti anni, fino al passaggio prima ai vertici nazionali del sindacato nel 2010 e poi alla politica con Sel nel 2013. “Nella storia dei manager Marchionne verrà ricordato per aver preso un’azienda fallita e acquistato con quella azienda un’altra che stava fallendo per poi farne un gruppo internazionale salvando il suo azionista”, è la sua sentenza. Meno positivo è il bilancio del sindacalista sul fronte dei lavoratori che hanno pensato di trovare in lui il salvatore della patria e invece poi hanno dovuto fare i conti con una trasformazione che ha reso la Fiat un’azienda sostanzialmente apolide. “Penso siano esistiti due Marchionne. Il primo è il Marchionne che arriva in Italia e prende un’azienda che tecnicamente era da libri contabili da portare in tribunale – sintetizza – È quello che io chiamerei Marchionne l’Italiano, il manager che recupera uno spirito nazionale, ritorna a parlare di prodotto, che gira gli stabilimenti, che mangia in mensa con gli impiegati, va a vedere come si fanno le singole lavorazioni. Aneddoti memorabili da questo punto di vista”. È il Marchionne che racconta in varie dichiarazioni che la Borsa è sanguinaria, che la colpa non è dei lavoratori, che sbagliano i manager, sbagliano i progettisti, mai i lavoratori. “Abbaglia anche pezzi di politica di sinistra di allora. Penso a chi lo definiva un socialdemocratico piuttosto un non nemico dei lavoratori”, ricorda l’ex avversario. È insomma Marchionne nazionale, quello del rilancio della Fiat.
È in questa fase, ricorda Airaudo, che Marchionne si fa amare dai lavoratori italiani e persino dalla politica. Quando è a Torino dorme al Lingotto, in una ex palazzina uffici rimodernata, dove spesso all’alba incontra i sindacalisti. Per il sindacato è subito chiaro che il manager italo-canadese inaugura una nuova fase. “Già nel primo incontro ci disse subito: ‘Io so come affrontare le banche e gli americani‘ – riprende Airaudo – Quelli erano giorni in cui erano in corso molti attentati in Iraq. Non vedendoci convinti, mi disse: ‘Lei ha presente cosa stanno facendo i guerriglieri iracheni? Prima sparano e poi discutono. Ecco io li conosco gli americani. Con gli americani bisogna fare così, prima spari poi discuti. Se no non capiscono’. Aggiunse poi: ‘Vi garantisco che non chiuderò Termini Imerese e Mirafiori. Voglio un accordo con il sindacato e con i lavoratori perché non è colpa loro se la Fiat è così. Alle banche e agli americani ci penso io’. In qualche modo ci propose un accordo per concentrarsi sugli altri fronti. Cosa che poi fece perché risolse il prestito convertendo con le banche italiane con buon risultato e si fece pagare da General Motors minacciando di regalargli la Fiat”.
Inizia così il percorso di Marchionne in Fiat dove viene subito identificato come “un manager di formazione anglosassone – ricorda ancora Airaudo – che non aveva tutti i ritualismi legati al ruolo dell’amministratore delegato”. Ad iniziare dall’abbigliamento con il suo ben noto maglioncino blu, un vero cambiamento rispetto ai completi ingessati dalle vecchia gestione. “Nei primi anni non amava apparire pubblicamente, ma era presente negli stabilimenti – prosegue il sindacalista – Girava nei reparti. Una volta disse ad una lavoratrice: ‘Che brava che era stata a infilare il paraurti’. E lei rispose: ‘Dottore è solo culo, di solito non va così’”. Ma la cosa non ebbe conseguenze. Anzi servì a capire cosa andava migliorato in fabbrica. In un’altra occasione, vedendo dei cassoni di materiale che andava assemblato, disordinatamente accatastato accanto alle linee di produzione, aveva pubblicamente bacchettato il responsabile del reparto. Roba inimmaginabile già solo qualche mese prima del suo arrivo. “Sono cose che all’inizio hanno reso l’uomo diverso dai soliti amministratori delegati Fiat che erano un gradino sotto Dio nella catena gerarchica, che erano più generali. Diciamo che da questo punto di vista lui ha democratizzato il suo ruolo”, riprende il sindacalista. Ne approfitta anche la politica italiana che lo indica come un esempio da seguire per valorizzare l’industria del Paese.
Poi nel 2008, le cose cambiano: “La crisi lo sorprende, lui come tutti: è spiazzante. E a quel punto lì la dimensione nazionale dell’uomo scompare. Al suo posto c’è il secondo Marchionne. Quello che io chiamo Marchionne l’americano”, evidenzia Airaudo. È la fase in cui il manager cerca un’alleanza per la Fiat. L’occasione arriva con la crisi della Chrysler e la volontà del presidente Obama di salvare il salvabile quando i tedeschi scappano dopo aver investito milioni di euro. Marchionne prende la palla al balzo e prende soldi in prestito dal governo statunitense per acquistare Chrysler. “Da quel momento in poi l’Italia sparisce. Quindi il problema grosso non è tanto che c’è un Marchionne buono e uno cattivo – racconta Airaudo – C’è un Marchionne che in una prima fase faceva coincidere l’interesse nazionale, l’interesse del mantenimento degli stabilimenti con il rilancio del marchio Fiat e dei suoi prodotti. Nella seconda fase la priorità diventa internazionale e diventa denazionalizzare la Fiat. In qualche modo farla diventare un’impresa apolide”. Per Airaudo, “Fiat, Fabbrica Italiana Automobili Torino, resta solo un acronimo: la Lancia non si produce più, i prodotti Fiat sono minimi e anzi è stata usata la rete distributiva e produttiva di Fiat per produrre Jeep”. Insomma “per questo secondo Marchionne, guardando agli Stati Uniti, l’Italia è diventata periferica” continua Airaudo evidenziando che il manager non ha alcuna colpa. Ha fatto quello che andava fatto nell’interesse del suo azionista, mentre la responsabilità di aver indebolito l’industria automobilistica italiana è della politica che non ha mai chiesto nulla. Con l’operazione Chrysler è infatti il baricentro della Fiat che viene spostato negli Stati Uniti, non il contrario.
Passano gli anni e arriva anche il referendum sul nuovo contratto Fiat che rompe con il contratto nazionale di categoria. “L’ultima volta che ho visto Marchionne in un incontro riservato dopo il referendum di Mirafiori e lui da buon americano mi ricevette e mi disse: ‘Siete stati bravi’ come l’americano con cui tu fai a pugni e poi ti invita al bar. Io risposi: ‘Non abbastanza. Avete vinto per poco’. E lui aggiunse: ‘Sa che io ho pensato di venire in assemblea a controbattere alle vostre ragioni? Però mi hanno fermato’. A me sarebbe piaciuto – prosegue il sindacalista – Sarebbe stato un bel duello. Era un tipo così. Il personaggio era così. Tra l’altro mi ricevette con un sondaggio dicendo “adesso le spiego perché voi avete vinto”. Mi disse così… perché è vero che che avevamo perso ma sia a Mirafiori che a Pomigliano i no erano talmente tanti che offuscavano il sì. La verità è che non si vinse, si è resistito. Si dimostrò che c’era un disagio”. Ma questo non impedì al manager di andare avanti nel suo disegno che, secondo il sindacalista, si avvalse del “grande diversivo del contratto (…) per nascondere la vera operazione che aveva un duplice aspetto. Il primo era denazionalizzare la Fiat fare quindi la trasfigurazione di un’azienda nazionale ad un’azienda apparentemente apolide per in verità fare altro”.
Così “oggi il marchio Fiat è assolutamente più fragile tant’è che la Fiat ha bisogno di un alleato, operazione che lui non è riuscito a concludere. La Fiat non è diventata così grande da competere con i grandi produttori che resteranno e non è così grande da reggere la sfida dell’innovazione dell’automobile che va dalle vetture elettriche o alimentazioni alternative a quelle senza pilota”, aggiunge Airaudo. La metamorfosi è insomma incompleta nel senso che, come suggerisce l’ex sindacalista, “da soli non ce la si può fare tant’è che lei vede che ogni tanto si parla di una possibile alleanza con un altro americano o di interesse dei coreani. Il rischio molto grande è che quello che noi conosciamo come Fiat finisca nei prossimi mesi o anni in uno spezzatino industriale dove magari alcuni marchi vanno a nozze con alcuni operatori, altri restano autonomi”.
Oggi del resto Fca è una multinazionale che ha il quartier generale a Detroit, la ragione sociale ad Amsterdam e paga parte delle sue tasse in Gran Bretagna. “Delle società degli Agnelli cosa è rimasto in Italia? – domanda – La finanziaria di famiglia, la Juventus. Tutto il resto dal punto di vista del controllo è già meno italiano del 2008. Questa è stata l’operazione di Marchionne che ha reso la Fiat un’azienda apolide ma la lascia un po’ in mezzo al guado. Quello che mi preoccupa è che i lavoratori italiani sono oggi più deboli del 2008”. Non sarà facile quindi per il suo successore gestire l’azienda: “Chi verrà dovrà confrontarsi con un monumento perché Marchionne era diventato una specie di semidio in Fiat – conclude Airaudo – Decideva tutto lui. Quindi non sarà facile sostituirlo. E si troverà con le incognite finali non risolte. Certo la Fiat non è fallita, ha ancora una presenza in Italia per quanto ridimensionata. Però i marchi sono ridotti a poco: c’è la 500, c’è la scommessa Alfa che non è stata ancora vinta. Siamo lontani dalle 400mila vetture che Marchionne promette da 10 anni in tutti i suoi piani e quindi io temo che il prossimo amministratore delegato avrà il problema finale che Marchionne non aveva risolto. Con chi allearsi? Ho paura che in questa alleanza l’Italia come Paese è il vaso di coccio. E nel frattempo abbiamo una Fiat denazionalizzata”.