Nella successione di Marchionne ha avuto la meglio la componente anglosassone del gruppo: significa continuità ambientale e strategica. Gli obiettivi fissati nel piano industriale 2018-2022 presentato lo scorso 1° giugno non subiranno modifiche. Mercati e investitori si interrogano invece su un'altra questione: sarà in grado il nuovo ad di portarlo a termine?
La designazione di Mike Manley, 54enne inglese ex numero uno di Jeep, come successore di Sergio Marchionne alla guida di FCA ha avuto come effetto immediato le dimissioni di Alfredo Altavilla, fino a poche ore fa responsabile del gruppo per tutta l’area Emea (le deleghe sono andate ad interim al neo ad), molto vicino a John Elkann, ma soprattutto l’altro candidato “forte” alla poltrona di CEO. Non un normale avvicendamento, ma il risultato di un confronto duro e sottotraccia che va avanti da più di un anno, ovvero da quando si è cominciato a parlare del cambio sul ponte di comando. Alla fine, complice forse l’accelerazione nei tempi, ad avere la meglio su quella italiana è stata la componente anglosassone del gruppo, quella se vogliamo più in vista a livello mondiale e più spendibile dal punto di vista mediatico. Cosa significa questo per il futuro di FCA?
Innanzitutto, concordano gli analisti, continuità “ambientale” (Manley era nella ristretta cerchia dei fedelissimi di Marchionne) e strategica: gli obiettivi fissati nel piano industriale 2018-2022 presentato lo scorso 1° giugno, insomma, non subiranno modifiche. Mercati e investitori – complici le dimissioni di Altavilla il titolo Fca ha perso l’1,5%, Cnh l’1,7%, Exor il 3,25% e Ferrari il 4,88% – si interrogano invece su un’altra questione: sarà in grado il nuovo ad di portarlo a termine? Lo scetticismo è, per così dire, temporale: legato al momento contingente ma anche al futuro. Quanto al primo, l’uscita di scena di Marchionne è percepita come una brutta sorpresa che genera incertezza. E chi investe non ama né l’una né l’altra. La seconda attiene alla figura stessa di Manley: un vero e proprio car guy, ma soprattutto un abile venditore (le immatricolazioni di Jeep si sono quadruplicate, 1,4 milioni nel 2017) molto capace nella costruzione di reti commerciali e nei rapporti coi dealer. Questa si, una discontinuità rispetto al passato.
In una situazione normale, ovvero con un portafoglio pieno di nuovi prodotti in rampa di lancio, sarebbe una benedizione. Nel caso di Fca, nonostante le buone intenzioni del piano 2018-2022 con investimenti su elettrificazione e auto, è solo fonte di perplessità: di novità ad oggi se ne intravedono col contagocce e solo per i marchi ad alta remunerabilità (Jeep, Alfa Romeo, forse Maserati), non certo per la defunta Lancia e la boccheggiante Fiat. Insomma, un conto era puntare sull’FCA di Marchionne genio della finanza, un altro è farlo ora sull’FCA di Manley il venditore (con poco da vendere). Tradizione, blasone e unicità tengono invece la Ferrari al di fuori di queste incertezze nel lungo periodo nonostante gli scossoni che sta subendo nell’immediato, sebbene qualche addetto ai lavori ritenga che la strategia messa a punto dal Cavallino per i prossimi cinque anni possa subire rallentamenti. Al nuovo amministratore delegato, Camilleri, servirà tempo per orientarsi e padroneggiare il tutto. CNH poi non desta preoccupazioni più di tanto, mentre Magneti Marelli è prossima allo scorporo dal gruppo.
L’altro interrogativo riguarda i possibili “matrimoni” con altri costruttori. Facendo un passo indietro, va detto che la strategia della creazione di valore portata avanti da Marchionne aveva diversi target, tutti centrati: remunerare gli azionisti, tenere alto il titolo, e scrollarsi di dosso un indebitamento pesante che avrebbe tenuto lontano potenziali acquirenti. I tempi ora sarebbero maturi per passare dal corteggiamento all’anello, l’ultimo pretendente nonostante le recenti smentite sono i coreani di Hyundai-Kia, ma la prematura uscita di scena dello stratega/negoziatore Marchionne potrebbe congelare il tutto. Come sopra: fare affari col numero uno al mondo è un conto. Confrontarsi con altri dirigenti richiederà invece tempo aggiuntivo, per annusarsi e conoscersi. Dulcis in fundo, la questione lavoro in Italia. Marchionne, abruzzese orgoglioso, aveva promesso la piena occupazione negli stabilimenti italiani. Operazione non portata a termine prima, e ancora più difficile ora. Non a caso, la preoccupazione serpeggia unanime tra i sindacati. Sarà in grado di riuscirci il “mago” inglese della Jeep?