Un argomento affiora spesso nel dibattito culturale sulla formazione: il liceo classico è ancora utile oppure no? Intellettuali di grido, docenti, cittadini comuni si infervorano nella discussione e danno valutazioni contrastanti. È uscito ora un saggio di peso, La scuola giusta: in difesa del liceo classico (Mondadori, 2018), che affronta il problema sotto molti punti di vista. L’autore, Federico Condello, è professore ordinario di filologia classica nell’ateneo di Bologna, coordinatore del Laboratorio di traduzione specialistica delle lingue antiche, esperto di valutazione della ricerca scientifica umanistica.
Condello assume una posizione chiara fin dal titolo. La tesi di base è questa: il liceo classico è un “elemento distintivo della storia italiana, risorsa inestimabile e troppo poco sfruttata, per favorire l’eguaglianza scolastica e la mobilità intergenerazionale”. L’autore dà un quadro storico dettagliatissimo delle normative che si sono succedute – dalla legge Casati del 1859 e dalla riforma Gentile del 1923 ai giorni nostri – e propone una brillante disamina dei tanti aspetti culturali, sociali e politici implicati. Non accetta tesi preconcette (né pro né contro) e non si impegna in una difesa ideologica del classico: il suo è un ragionamento tentacolare, fondato su una ingente quantità di dati oggettivi, abilmente giocato su tesi, antitesi e sintesi, e dispiegato con semplicità allo sguardo del lettore.
Affronta temi complessi, supinamente riconosciuti nel discorso culturale corrente, come il mito delle due culture, “umanistica” e “scientifica”: la prima reputata a volte un lusso superfluo, elitistico, dunque di destra; l’altra utile a tutti, non elitaria, perciò di sinistra. (Dispiace che molte volte siano proprio i sedicenti “umanisti” a trastullarsi in questo genere di fuoco amico.) Per superare la falsa dicotomia – una finzione che viene gabellata per vera – ecco allora che giova ricorrere all’interdisciplinarità, assurta a imperativo categorico fin dagli anni Settanta. Ma anche qui c’è un inganno in agguato: se non è specificamente richiesta dall’oggetto indagato, l’interdisciplinarità rischia di scadere in uno slogan che può determinare l’annacquamento dei saperi, risultando utile talvolta solo a concepire progetti astrusi per accedere ai finanziamenti pubblici.
Pagine coinvolgenti dedica Condello allo studio della grammatica e della sintassi greca e latina; scintillanti quelle sulla traduzione dei testi, vista come strumento profondamente idoneo a combattere il nozionismo, giacché induce a soppesare le varie soluzioni suggerite o consentite dal testo, educa la mente a formulare ipotesi e a confrontarle con quelle altrui. Uno sguardo acuto Condello rivolge allo status sociale e familiare di chi accede al liceo classico. Nel confrontare i dati con quelli dell’altro importante liceo, lo scientifico – ambedue sboccano negli studi universitari -, ci ricorda che entrambi richiedono investimenti finanziari e psicologici non sempre alla portate delle famiglie meno abbienti. L’elitismo è dunque spesso una condizione di partenza.
Tra le tante virtù del libro e delle sue multiformi aperture intellettuali il musicologo coglie un solo difettuccio, che per la verità non è un’esclusiva di Condello, bensì un limite che affligge la gran parte degli intellettuali italiani. L’autore non accenna al ruolo fecondissimo che la storia della musica – una disciplina così strettamente intrecciata al pensiero letterario-filosofico-artistico – potrebbe svolgere nel liceo classico, fertilizzando una vera, ricca, vitale interdisciplinarità: si pensi anche soltanto al melodramma come vettore di miti e storie tramandate dalla letteratura sia antica sia moderna, da Sofocle a Ovidio, da William Shakespeare a Aleksandr Puškin. Emarginata da tutto il sistema liceale, confinata nel solo liceo musicale-coreutico (come se essa riguardasse soltanto chi sogna di diventare musicista), la storia della musica mancherà sempre dal bagaglio culturale del cittadino italiano colto.
Un’ultima veloce osservazione. Il saggio di Condello si rifà a una tradizione culturale assai nobile, quella del latinista Ivano Dionigi, già rettore dell’Università di Bologna, presidente della Pontificia accademia di Latinità e presidente di AlmaLaurea, l’osservatorio bolognese degli sbocchi professionali dei laureati. Due anni fa Dionigi ha pubblicato un libro prezioso, Il presente non basta: la lezione del latino (Mondadori, 2016), che qui desidero rammentare. Cito solo poche parole: “Il latino ci mette a parte di una triplice eredità: il primato della parola, la centralità del tempo, la nobiltà della politica“. Nella nostra epoca, caratterizzata da un senso piuttosto mediocre della res publica, infestata da un chiacchiericcio incessante, questi tre pregi meritano di essere profondamente meditati.