Il consigliere economico Borghi: "Mettere in circolo denaro" senza badare a "pareggio di bilancio, ossessione per le coperture, vincoli europei". Salvini: "Cambiare numeri scelti a tavolino a Bruxelles, che Francia, Spagna e Germania ignorano". Nessuno dei tre Paesi però sfora e tutti hanno un debito/pil che li rende meno rischiosi agli occhi degli investitori
La Spagna del socialista Pedro Sánchez come modello da imitare perché “ha appena annunciato che se ne fregherà dei target di bilancio“. L’indicazione arriva dal deputato leghista Claudio Borghi, consigliere economico di Matteo Salvini, secondo cui la ricetta per spingere la crescita economica (“mettere benzina nel motore”) è semplicissima: basta “mettere in circolo denaro” facendo salire il deficit ben oltre lo 0,8% previsto dall’ultimo Def di Paolo Gentiloni e Pier Carlo Padoan. E senza badare a “pareggio di bilancio, ossessione per le coperture, vincoli europei“. Come Madrid, sostiene Borghi in un ‘intervista a Repubblica. E il leader del Carroccio, dalle pagine del Corriere, conferma: “Cercheremo di cambiare anche alcuni numeri scelti a tavolino a Bruxelles, che molti Paesi Ue ignorano bellamente”. Quali? “Francia, Spagna, Germania“. Ma in realtà nessuno dei tre attualmente sfora il parametro di Maastricht sul deficit – quello che impone di tenerlo sotto il 3% del pil – né ha annunciato di volerlo fare. E tutti e tre gli Stati hanno un debito di gran lunga inferiore a quello italiano rispetto al pil prodotto dalle loro economie. Un fattore cruciale per gli investitori che quel debito lo finanziano acquistando i titoli di Stato della Repubblica italiana. Peraltro la Spagna cresce intorno al 3% l’anno, e la Francia e la Germania sono intorno al 2%, contro lo striminzito 1,3% previsto nel 2018 per l’Italia, ancora una volta fanalino di coda tra i Paesi Ue.
La Francia è rientrata nei ranghi. Berlino viola solo una “soglia raccomandata” – Parigi lo scorso anno, dopo un decennio di sforamenti, è tornata a rispettare il parametro di Maastricht che prevede di tenere il rapporto deficit/pil sotto il 3%: la Commissione europea ha chiuso la procedura per deficit eccessivo nei confronti del Paese e nelle “pagelle” della scorsa primavera ha attestato che nel 2017 la Francia di Macron l’ha portato al 2,6% e per il 2018 prevede un 2,3%. Berlino è più che ligia alle regole sul bilancio dello Stato mentre supera solo la “soglia raccomandata” prevista per il surplus commerciale (differenza tra export e import), che dovrebbe restare sotto il 6% del pil mentre nel caso della Germania è da anni intorno al 9 per cento. Si tratta però, appunto, solo di una raccomandazione, non di un parametro imposto dai trattati.
In Spagna deficit/pil su dello 0,5% rispetto alle previsioni, ma su le tasse per le imprese – Quanto alla Spagna, esempio indicato da Borghi, in realtà il governo socialista di Pedro Sanchez ha sì annunciato un aumento della spesa pubblica, ma non ha intenzione di violare di nuovo Maastricht dopo che le manovre del predecessore Mariano Rajoy hanno riportato in carreggiata i conti (nel 2014 il deficit aveva toccato il 6% del pil). Il nuovo primo ministro si accontenterà di portare il deficit/pil 2019 al 2,7%, rispetto al 2,2% previsto dal predecessore Rajoy, un livello che ha definito “non realistico” perché obbligherebbe “ad adottare manovre di aggiustamento di notevole portata”. In parallelo al minor sforzo strutturale che verrà messo in campo dalla ministra dell’Economia Nadia Calviño, poi, Sanchez ha promesso di aumentare le tasse per le imprese “in modo che l’aliquota effettiva per le grandi corporation sia vicina al 25% e in nessun caso inferiore al 15%”. In Italia l’Ires sulle imprese è scesa nel 2017 dal 27,5% al 24 per cento e come è noto il contratto di governo tra Lega e M5s prevede una dual tax con due aliquote, al 15 e al 20%.
La zavorra del debito riduce i margini di manovra – Va aggiunto che sia la Francia sia la Spagna hanno un debito/pil inferiore al 100%, rispettivamente al 97% e al 98,3%. Mentre la Germania nel 2017 ha ridotto il rapporto al 64,1% contro il 74,7% del 2014. Contro il 131,8% dell’Italia, che è seconda dietro alla Grecia per ammontare della zavorra che pesa sulla crescita e che ogni anno va rifinanziata. Secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio, quest’anno e il prossimo l’Italia dovrà vendere titoli per circa 380 miliardi annui su un totale di oltre 2.300 miliardi di euro. Numeri che richiedono disciplina di bilancio non perché “lo chiede Bruxelles” ma perché se si sfora è di fatto inevitabile un ulteriore aumento dello spread, il differenziale tra il tasso che la Penisola deve pagare agli investitori e quello offerto dai Bund tedeschi, ritenuti più sicuri. E pagare più interessi (complice anche la fine del quantitative easing di Mario Draghi) riduce gli spazi per interventi in favore dell’economia reale, quelli giustamente invocati dagli esponenti del nuovo esecutivo. Lo sa bene il ministro dell’Economia Giovanni Tria, che domenica a margine dei lavori del G20 ha ribadito la “volontà di applicare il programma del governo mantenendosi ovviamente quei limiti di bilancio necessari per conservare la fiducia dei mercati ed evitare l’instabilità”.