In tempo di pace, ipotizzare di mutare velocemente la politica estera di un Paese, significa non conoscere le varie dinamiche che contraddistinguono i vigenti rapporti di forza internazionali. È come far virare un transatlantico, serve del tempo affinché la rotta cambi e si possa puntare verso una nuova direzione. Tuttavia, questo non può e non deve essere un alibi al cambiamento.

Come è noto, dopo il secondo conflitto mondiale l’Italia entrò a far parte nella sfera d’influenza statunitense. La contraddizione che, nel tempo, sovente ha determinato instabilità, è che nel nostro Paese c’era il partito comunista più forte d’occidente, un partito a cui però non era permesso governare. Questo “bipartitismo imperfetto” (Giorgio Galli) e la conseguente impossibilità di realizzare una democrazia dell’alternanza, è stato all’origine di quel partito unico che ha favorito quella cultura del malaffare che si è incancrenita in decenni. Il tentativo di superare questa democrazia zoppa fu fatto da Aldo Moro e la sua morte è la dimostrazione di come in politica estera soffino venti contrari che possono strappare le fragili vele della democrazia parlamentare.

Oggi, la situazione è parzialmente mutata. La nostra politica estera resta ancora dipendente ma le dinamiche internazionali stanno cambiando e l’Italia può, in un contesto europeo e con il sostegno morale di Papa Francesco essere un punto di riferimento per realizzare il più importante dei cambiamenti. Mi riferisco a quello di intraprendere un percorso di riconversione industriale (e conversione culturale) che in Occidente ci faccia superare quell’economia di guerra in cui ci troviamo dopo il 1945. Quel complesso militare industriale preannunciato da Dwight D. Eisenhower nel suo discorso di commiato che oggi ci fa vivere in un mondo fatto di guerre a grappolo. Un sistema che, secondo il Sipri di Stoccolma, a livello globale fa spendere agli Stati 1739 miliardi di dollari l’anno (dato del 2017) quando ne basterebbero soltanto 40 (Sobrietà di Francesco Gesualdi e a cura di Centro nuovo modello di sviluppo)per porre fine alla fame del mondo. Investendo in pace, oltre a salvare milioni di vite si porrebbe fine ai fenomeni migratori.

Primo importante segnale di cambiamento che il nostro Paese deve dare è, come più volte sollecitato da Alessandro di Battista, lasciare l’Afghanistan. Si tratta della nostra guerra più lunga e costosa. Cosa hanno fatto gli afgani a noi italiani? Perché partecipare alla distruzione di un Paese sovrano del tutto estraneo (come del resto anche l’Iraq) alle vicende dell’11 settembre? L’Italia per questa guerra, che è costata la vita anche a 54 dei nostri soldati, ha speso 7,5 miliardi di euro una somma che in tempo di crisi avrebbe rilanciato la nostra economia invece di permettere il suicidio di centinaia tra disoccupati e piccoli imprenditori.

Il nostro Parlamento sarà da stimolo a proposte atte a indirizzare l’azione del governo. Il Parlamento deve essere l’artefice del disinnesco di quel pilota automatico che sembra essere inserito da decenni nella nostra politica estera. Questo vale anche per l’acquisto degli F-35. Cacciabombardieri che ci dovrebbero difendere, ma da quali Paesi a noi ostili? Chi sono i nostri nemici? La sicurezza che necessitiamo non è data da aerei difettosi che trasportano ordigni atomici, ma da intelligence e cyber-difesa.

Lasciare l’Afghanistan e fermare l’acquisto degli F-35 sono obiettivi storici del programma del M5s. F-35 noti a livello mondiale per essere un cattivo affare e, secondo la Corte dei Conti, tale spesa è destinata a raddoppiare e non ci saranno le ricadute occupazionali inizialmente stimate. Ad oggi, per questi aerei first strike abbiamo speso 4 miliardi, sono in programma altri 10 miliardi, ma soprattutto una spesa di gestione di (almeno) 35 miliardi per i prossimi 30 anni. Una cifra che possiamo risparmiare perché non esiste alcun vincolo, nessuna penale con la Lockheed Martin che ci imponga l’acquisto. Ci sono stati consegnati già 10 esemplari e 16 sono in arrivo, dei 90 che abbiamo in programma; acquistarli tutti sarebbe un grave errore.

Costruiamo nuovi asili nido e scuole, rendiamo efficienti gli ospedali, miglioriamo le linee ferroviarie e gli acquedotti, spendiamo in sicurezza sul lavoro e nuove occupazioni, riconvertiamo il nostro sistema energetico, rendiamo le nostre abitazioni antisismiche. È giunto il momento di investire in cultura della vita e non in strumenti di morte.

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