di Floro Ernesto Caroleo e Francesco Pastore
Pensavamo che con il Jobs Act si interrompesse, almeno per qualche anno, l’infinita vecchia guerra ideologica sulla flessibilità nel mercato del lavoro. Invece no, il governo gialloverde continua, peraltro senza tener conto dei dati empirici. Ci si aspettava un cambiamento e il cambiamento non può che essere: mettiamo da parte il dibattito sulla flessibilità e i contratti di lavoro e parliamo invece di investimenti pubblici e di crescita. Questo sarebbe il vero cambiamento!
Da economisti del lavoro, non abbiamo mai amato parlare delle leggi del lavoro perché contrariamente a quello che molti credono, le leggi non creano lavoro, lo redistribuiscono solo e in Italia c’è bisogno piuttosto di creare che di redistribuire il lavoro. Lo avevamo detto già in modo abbastanza chiaro in un precedente post di saluto all’insediamento del nuovo ministro del lavoro Luigi Di Maio.
Il governo dice che il decreto dignità serve per impedire che i giovani siano schiavi delle imprese. L’intento è affatto condivisibile e sicuramente la precarietà del lavoro ha raggiunto una soglia inaccettabile e su alcune questioni, come quella dei riders, i governi dell’ultima legislatura non sono intervenuti come avrebbero dovuto. In un precedente articolo, avevamo chiesto più diritti per i dipendenti di Amazon. Siamo d’accordo che si riconosca ai riders lo status di lavoratori dipendenti, se l’impresa chiede loro un impegno lavorativo stabile per tutta la giornata lavorativa. Non si dovrebbe parlare di cottimo in quel caso. Anche qui la cosa va studiata bene, però, per evitare che le imprese del settore se ne vadano via. Occorre magari responsabilizzare la clientela affinché accetti un sovrapprezzo per pagare il servizio a domicilio.
Per motivi di spazio è difficile entrare su tutte le questioni all’ordine del giorno. Ne poniamo solo qualcuna, anche perché Di Maio ha annunciato che il testo sarà inviato al Parlamento che potrà liberamente modificarlo. Per certi versi è giusto così, ma forse è un modo per consentire alla Lega di cambiarlo a modo suo senza ammettere di aver ceduto su alcuni punti chiave, per mancanza di convinzione. Ma allora, meglio sarebbe lasciar perdere.
In parte si tratta di provvedimenti già sperimentati senza successo. Ad esempio, la questione di ridurre la durata massima dei contratti temporanei da 3 a 2 anni può essere un errore poiché i giovani hanno bisogno di rapporti di una certa durata per sviluppare le competenze lavorative specifica, altrimenti non riescono mai a formare il loro capitale umano.
La causale per i lavori temporanei era già presente nella Legge Fornero ed è stata eliminata poiché portò alla discontinuità di molti contratti di lavoro temporanei, oltre a un aumento enorme del contenzioso sul lavoro. E le due cose sono strettamente legate. Di Maio dice che va evitato il contenzioso falso ma non escluso quello giustificato se non si vuol lasciare il lavoratore solo. Fare queste distinzioni nella pratica però è difficile e questo si sa bene. il rischio è che si perdano molti più posti di lavoro temporanei di quelli previsti da Tito Boeri, come è già stato notato anche da altri.
C’è anche il rischio di aumentare la precarietà: introducendo l’obbligo di causale dopo un anno, si spinge le imprese a sostituire i lavoratori, accorciando ulteriormente la durata delle esperienze di lavoro. Poi c’è la questione del caporalato che invece è stata un’importante novità introdotta nell’ultima legislatura e che dà un minimo di protezione a tanti giovani che lavorano nelle campagne. Il ministro degli Interni, Matteo Salvini, che si occupa anche di lavoro, ha detto che “va cambiata” perché mette in difficoltà le imprese agricole (sic). Al posto di quella legge, andrebbe reintrodotta la norma sui voucher in agricoltura e nel turismo, abolita la scorsa legislatura per la contrarietà dei sindacati.
Non ci ha mai appassionato né la flessibilità né la rigidità. Ci appassiona la crescita invece. I lavoratori saranno meno schiavi e avranno maggiore dignità solo se l’economia cresce. Le imprese continuano ad assumere in modo temporaneo poiché non ci sono prospettive di crescita, non per le leggi sul lavoro. La gente è felice se si cresce e c’è più lavoro, non se ha leggi che creano garanzie che i datori di lavoro evitano non assumendoli.
La crescita è l’unica cosa che causa aumento dei posti di lavoro. La stabilità della crescita favorisce le assunzioni a tempo indeterminato. L’incertezza sulle prospettive di crescita, invece, scoraggia le assunzioni a tempo indeterminato. Quando è scoppiata la crisi economica, i primi contratti a essere interrotti sono stati quelli temporanei. I contratti che, invece, non si sono più siglati sono quelli a tempo indeterminato. È soprattutto da allora che i nuovi contratti continuano a essere a tempo determinato.
Da allora, i contratti a tempo indeterminato sono fermi al palo, ad eccezione del periodo delle incentivazioni attraverso la decontribuzione dell’assunzione dei giovani nel biennio 2015-16. Le imprese torneranno ad assumere a tempo indeterminato quando l’economia crescerà in modo stabile e si sentiranno perciò in grado di impegnarsi con i propri lavoratori a garantirgli un lavoro per tutta la vita. Fino ad allora, qualunque sia la legislazione sul lavoro, le imprese continueranno ad assumere in modo precario.