Incentivi e finanziamenti pubblici, defiscalizzazioni, cassa integrazione, contributi a fondo perduto e una smaccata preferenza dello Stato per la costruzione di strade e autostrade piuttosto che di reti ferroviarie. La storia dell’auto italiana, incarnata dalla Fiat, è costellata da una pioggia di denaro pubblico che ha contribuito a rendere grande Fca. Ma che, nel silenzio della politica, non ha impedito a Sergio Marchionne di relegare il nostro Paese ad un ruolo periferico. Stando così le cose dove ha sbagliato la politica italiana? E che cosa sarebbe stato necessario fare per rafforzare la presenza di Fca in Italia?
“Sarebbero serviti governi capaci di sfidare l’impresa e pretendere il mantenimento dell’industria nazionale – ha dichiarato Giorgio Airaudo, che all’arrivo del manager al Lingotto era il numero uno della Fiom torinese e lo è stato per tanti anni, fino al passaggio prima ai vertici nazionali del sindacato nel 2010 e poi alla politica con Sel nel 2013 – Cioè, a noi è mancato Obama – ha proseguito l’ex sindacalista – Non c’è stato un Obama italiano che gli ha detto: ‘Fai pure quello che vuoi negli Stati Uniti, ma devi fare una grande impresa nazionale dell’automobile‘. Anzi noi abbiamo avuto una classe politica che ha applaudito a questa migrazione non vedendola come una migrazione”. Le cose sono invece andate diversamente in altri Paesi: in Germania la Merkel ha detto no ad uno scambio tecnologico per la Opel pretendendo denaro e investimenti; negli Stati Uniti, Obama ha offerto dei soldi per rilanciare Chrysler ma ne ha preteso la restituzione. “E qua non gli hanno chiesto niente. Lui non ha domandato nulla, ma in verità ha preso molto perché ha continuato ad usare la cassa integrazione che è dei lavoratori italiani. Sono convinto che il Marchionne che ho conosciuto non apprezzasse la classe politica del nostro Paese e se la ridesse abbastanza. Sono quasi certo di questo” ha concluso Airaudo.
Ma di quali cifre di risorse statali stiamo parlando? In un suo libro, l’ex senatore Massimo Mucchetti stima addiritura che, lungo tutto il Novecento, il denaro pubblico a vantaggio della società degli Agnelli abbiano superato l’esorbitante somma di cento miliardi di euro, come ricorda Il Messaggero. Cionostante oggi “il Paese ha perso peso e questo è un problema” come ha evidenziato l’ex ministro Carlo Calenda che pure fa parte di “una certa sinistra che quando Marchionne era potente gli ha permesso di fare ciò che voleva” come ha spiegato il vicepremier Luigi Di Maio. Se sono infatti indubbie le qualità del manager, è altrettanto vero che la politica italiana non ha saputo sfruttare le difficoltà della Fiat per radicare ulteriormente l’azienda sul territorio. Così proprio mentre lascia Fca anche il braccio destro di Marchionne, Alfredo Altavilla, e si consolida la leadership anglosassone, si moltiplicano anche i dubbi sul futuro di Fca in Italia e sulle carte in mano a Roma per evitare ulteriori ridimensionamenti delle quattro ruote. Marchionne “è stato un manager capace, soprattutto per gli azionisti, ma certo poco o per niente attento alla storia e agli interessi industriali del Paese, il quale, d’altra parte, ha avuto una politica debole, priva di strategie industriali, che sostanzialmente ha lasciato fare” ha scritto via Facebook il governatore della Toscana, Enrico Rossi, vicino all’ex ministro dello sviluppo economico Pierluigi Bersani che pure avrebbe avuto modo in passato di intervenire a difesa dell’interesse nazionale.
Ma la verità è che Marchionne ha avuto un rapporto distaccato con Roma. “Ha ereditato una Fiat, che negli anni aveva ricevuto molto denaro pubblico, e cionostante era sull’orlo del collasso. L’ha risanata e l’ha trasformata in un gruppo senza debiti – ha spiegato Marco Bentivogli, segretario generale della Fim Cisl – Ma si è sempre tenuto distante dalla politica italiana che caso mai lo ha usato per mostrare i propri successi. Si è tenuto lontano dalla politica per evitare di entrare in quel cortocircuito di ricatti, assunzioni clientelari, privilegi che non sono conciliabili con una grande azienda multinazionale. Oggi il Paese è del resto ricco di imprese che esportano buona parte della produzione senza dover dire grazie alla politica, io la chiamo Italia a prescindere”.
Il punto è però che la metamorfosi di Fca non è stata ultimata: è necessaria una nuova alleanza con il rischio di fondo di uno spezzatino industriale. Così alla fine dell’era Marchionne, gli interrogativi sul tavolo restano tanti per un piano industriale che la Fiom torinese definisce “troppo generico sui tempi e sui luoghi degli investimenti” che per di più verranno realizzati da un manager inglese, Michael Manley. In compenso per la politica italiana non è detta l’ultima parola. “È vero: in futuro per Fca sarà necessaria un’alleanza strategia – ha sottolineato ancora Bentivogli – Per questo sarebbe opportuno avere un ministero dello Sviluppo economico e un premier più veloci sulle questioni industriali del Paese al netto di consulenti ideologici che li hanno finora accompagnati. Del resto nel contratto di governo c’è una sola pagina dedicata a imprese e lavoro. Spero venga presto riempito di contenuti. Il mondo industriale sta cambiando volto molto rapidamente e la politica ha il dovere di stare vicino alle aziende rendendo più facile fare impresa nel nostro Paese. Di Maio purtroppo non potrà parlare a Marchionne di auto elettrica, ma può fare molto per preparare il Paese a quella grande trasformazione che prevede soprattutto interventi di ecosistema. Quanto ad Fca, la società che ha lasciato Marchionne è un’azienda senza debiti e per questo ha un suo appeal nel risiko automobilistico internazionale”.