Si chiama Fondo edifici di culto, è il polo museale più grande d'Italia ma (incredibilmente) non dipende dal ministero della Cultura, ma da quello dell'Interno. Si occupa della manutenzione di luoghi celebri come Santa Croce a Firenze o San Gregorio Armeno a Napoli con rispettivi capolavori, ai quali vanno aggiunti aree archeologiche, fondi librari, perfino 4 parchi. "Per la conservazione abbiamo solo 6 milioni. Per la valorizzazione? Niente"
Firenze, autunno 2017, Basilica di Santa Croce. Un turista spagnolo viene colpito da un frammento di capitello che si stacca da un’altezza di 30 metri e muore praticamente sul colpo. In pochi minuti la notizia si diffonde: giornalisti italiani e stranieri cercano di saperne di più, ma trovano tutti lo stesso ostacolo quando viene riferito loro da colleghi un po’ informati che la competenza della Basilica, attraverso l’Opera di Santa Croce (antica fabbriceria) è del Fec, sigla misteriosa che sta per Fondo Edifici di Culto. Lì, molti giornalisti, oltre a scoprire in quel momento l’esistenza di tale istituto, capiscono anche che non dipende dal ministero dei Beni Culturali come ci si aspetterebbe, ma dal ministero dell’Interno. Il Fec dipende dal Viminale, eppure è di fatto il polo museale più grande d’Italia.
Istituito e regolato dalla legge 222 del 1985 (ma iniziò a funzionare due anni dopo), il Fec racchiude infatti circa 820 edifici sacri, sparsi un po’ in tutta Italia, sia nelle grandi città, sia nei piccoli centri. A queste centinaia di edifici vanno aggiunte le 25 fabbricerie italiane che, nonostante siano regolate dalla stessa legge istitutrice del Fec, operano come enti di diritto privato, anche se il presidente di ognuna di queste è di nomina ministeriale. L’origine del suo patrimonio – come spiega il sito del Viminale – “deriva dalle leggi della seconda metà del 1800 con le quali lo Stato italiano soppresse le proprietà ecclesiastiche”.
Tanto per fare qualche esempio appartengono al Fec ben 71 chiese a Roma (tra cui la Basilica di Santa Maria del Popolo e Santa Maria sopra Minerva), 47 chiese di Napoli tra cui San Gregorio Armeno e Santa Chiara (con annesso il famoso monastero che esternamente versa in condizioni pietose), 32 chiese di Palermo, 10 tra le più importanti basiliche e chiese di Firenze (Santissima Annunziata, Santa Croce, San Marco, Santa Maria del Carmine, Santa Maria Novella, Santo Spirito tanto per rammentare le più importanti); vanno aggiunti poi aree archeologiche, un fondo librario antico (è alla Direzione centrale del ministero e conta oltre 400 volumi editi dall’anno 1552) e perfino alcune aree verdi: la Foresta di Tarvisio, che nella provincia di Udine si estende per circa 23mila metri quadri, il Quarto Santa Chiara, area silvo-pastorale ai piedi della Majella, nel Chietino e quella di Monreale e Giardinello (in provincia di Palermo) che conserva grazie alla collaborazione con i carabinieri forestali.
https://youtu.be/MCnWW20cja0
Ovviamente, se è lungo l’elenco dei luoghi del Fec, appare sterminata la lista delle opere d’arte in essi custodite e quella degli autori tra i quali figurano, tra gli altri, Giotto, Donatello, Benozzo Gozzoli, Ghirlandaio, Filippino Lippi, i Della Robbia, Michelangelo, Tiziano, Giorgio Vasari, Guido Reni, Caravaggio, Gian Lorenzo Bernini e molti, molti altri.
Per la tutela e la conservazione di questo ingentissimo patrimonio diffuso in tutta Italia esiste una sorta di “catena di comando”, per cui il Fec è affidato a una Direzione centrale del ministero dell’Interno, inquadrata nel Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione; in sede locale tale amministrazione è invece attribuita ai prefetti che, come si sa, hanno autorità nella provincia.
Già, ma con quali soldi e con quali competenze tecniche? Qui sta il punto. Il bilancio annuale del Fec si aggira sui 18 milioni di euro, un terzo dei quali è annualmente impiegato per interventi di conservazione e restauro. Cifre irrisorie, rispetto alle reali necessità. A paragone, gli 859 centri di spesa in carico al ministero dei Beni Culturali hanno a disposizione per il 2018 circa 2,4 miliardi di euro. Per cui è evidente che una parte del patrimonio culturale italiano (in particolare quello musealizzato, degli archivi e delle biblioteche, delle aree archeologiche statali e degli istituti di restauro) pur in una situazione complessa, tuttavia può contare su delle risorse appena sufficienti, mentre un’altra parte del patrimonio, più diffusa ma anche più esposta ai pericoli della natura e dell’uomo (oltre che del naturale invecchiamento della materia), in confronto non ha neanche gli occhi per piangere.
Non solo: oltre a non poter contare sulle risorse necessarie al suo mantenimento, non può fare affidamento neanche su personale qualificato in tal senso: il Fec infatti non dispone di funzionari di zona che costantemente verificano lo stato delle opere e, se necessario, le avviano (o predispongono) i necessari interventi di recupero. Anzi, quando le strade dei funzionari di zona del Mibact (quelli esistono!) e i responsabili del Fec si incrociano, di solito sono scintille, invece di procedere nel comune interesse del patrimonio culturale.
Senza soldi, senza personale (è così scarso che la presidente dell’Opera di Santa Croce di Firenze, nonostante l’avviso di garanzia per la morte del turista spagnolo, è stata riconfermata per un altro mandato) e con mezzo patrimonio culturale nazionale da custodire, il Fec pare adattarsi ai profili di quel novero di enti inutili in Italia, istituiti per legge forse per accontentare determinati strati della società o per mantenere a un livello accettabile le relazioni tra Stato e Chiesa. Ma niente di più.
Oggi negli uffici del Fec, al quinto piano del Viminale, vi lavorano persone che, se potessero, farebbero molto, molto di più. Ma non possono, soprattutto per mancanza di fondi: “Cosa vuole che le dica – afferma il prefetto Angelo Carbone, direttore del Fec – per conservazione e restauro abbiamo circa 6 milioni l’anno. Per la valorizzazione praticamente niente”.
Una situazione davvero incredibile che da 30 anni costringe una parte del patrimonio a rischiare troppo, più del necessario. E non si fa niente neanche per sensibilizzare l’opinione pubblica. Il Fec non ha un proprio ufficio stampa (dipende da quello del Viminale che, ovviamente, ha altro cui pensare) e la festa del trentennale del settembre 2017 (che ebbe il suo centro nevralgico nella Basilica di Santa Maria Novella, a Firenze, dove Leon Battista Alberti, Masaccio e Brunelleschi ci ricordano che il Rinascimento è nato lì) è passata pressoché sotto silenzio. Un’occasione persa.
La parola valorizzazione, poi, ha un significato quasi sconosciuto: negli ultimi anni si è registrata solo una mostra – dal titolo Caravaggio nel patrimonio del Fondo Edifici di Culto – Il Doppio e la Copia, organizzata per circa tre settimane in piena estate alle Gallerie Nazionali di Arte Antica, a Palazzo Barberini di Roma – che mise a confronto due opere del grande artista e altrettante copie forse coeve all’originale. Poi più niente, silenzio assoluto.
Eppure i governi di centrosinistra degli ultimi 5 anni hanno messo a punto una sfrenata azione di valorizzazione del patrimonio culturale (musealizzato) – talvolta a scapito degli aspetti più educativi e culturali – che non hanno trovato alcuna rispondenza nell’altra metà del patrimonio culturale, quello intestato al Fec, tutelato comunque dall’articolo 9 della Costituzione, ma quasi dimenticato e talvolta in pericolo. La speranza è che col nuovo esecutivo, il ministro della Cultura Alberto Bonisoli e quello dell’Interno Matteo Salvini trovino il modo di occuparsi della vicenda, magari studiando una soluzione che – opere, personale e risorse alla mano – ponga finalmente sullo stesso piano di tutela e valorizzazione sia il David e Golia degli Uffizi, sia gli affreschi dell’abside nella Basilica di San Domenico a Bologna: sono entrambe opere di Guido Reni, ma mentre la prima è conosciuta e osannata, quanti effettivamente conoscono apprezzano la seconda?