Nelle motivazioni della sentenza sulla trattativa Stato-mafia, vero romanzo criminale degli ultimi 30 anni della storia di Italia, e nell'anno in cui sono caduti i 25 anni delle stragi del 1993 troviamo un intero capitolo, il numero 34, dedicato all'oscura sigla criminale che nei primi anni Novanta rivendicava ogni singolo fatto di sangue che sconvolgeva il paese
Nelle motivazioni della sentenza sulla trattativa Stato-mafia, vero romanzo criminale degli ultimi 30 anni della storia di Italia, e nell’anno in cui sono caduti i 25 anni delle stragi del 1993 troviamo un intero capitolo, il numero 34, dedicato alla Falange armata, l’oscura sigla criminale che nei primi anni Novanta rivendicava ogni singolo fatto di sangue che sconvolgeva il paese: dai delitti della banda della Uno Bianca alle mattanze firmate dalla Cupola con telefonate che “partivano dalle sedi coperte del Sismi”. Per i giudici di Palermo “è forte il sospetto che il fenomeno della Falange Armata abbia potuto avere origine nell’ambito di servizi di sicurezza dello Stato” e anche se non è stata raggiunta una prova sul “possibile concorso nei fatti delittuosi qui in esame da parte di esponenti dei cosidetti ‘servizi segreti deviati’, va detto che gli indizi … sono ravvisabili…“. Ed è così nello iato tra verità processuale e verità sostanziale restano i due profili affrontati dai pm e su cui i giudici hanno scritto 81 delle 5252 pagine delle motivazioni. Anche se il nome Falange armata, che non compariva nel capo di imputazione, è citato decine volte.
“Cosa nostra usò la sigla per rafforzare la minaccia contro lo Stato”
Nel capo di imputazione, infatti, non vi è traccia della sigla né di contestazione ma “una corposa parte dell’istruttoria dibattimentale è stata dedicata … al fenomeno in relazione a due diversi, più o meno esplicitati, profili. In particolare, sotto un primo profilo, la pubblica accusa ha fatto riferimento all’utilizzo delle rivendicazioni degli attentati ad opera della Falange Armata come forma di rafforzamento della minaccia utilizzata da ‘cosa nostra’ nei confronti dello Stato. Sotto un secondo profilo, invece, la pubblica accusa si è riferita alla Falange Armata con riguardo al concorso nel reato di minaccia da parte di terzi ignoti riconducibili all’area dei cosiddetti ‘servizi segreti deviati'”. La conclusione dei magistrati, presieduti da Alfredo Montalto anche giudice estensore delle motivazioni, lascia a bocca aperta. “Senza volere affermare, dunque, ovviamente, che il fenomeno della Falange Armata sia riconducibile ad associazione mafiose, dal momento che si è piuttosto trattato di un sigla utilizzata da ‘diverse componenti’… tuttavia, può ritenersi raggiunta la prova che ‘cosa nostra’ abbia voluto rafforzare la minaccia, allora in corso, diretta al Governo con le rivendicazioni in esame, nelle quali si prospettavano, infatti, ulteriori bombe dirette a provocare, questa volta, centinaia di vittime (ed in proposito, allora, il pensiero non può non andare all’attentato che sarebbe stato organizzato qualche mese dopo allo stadio Olimpico di Roma (23 gennaio 1994, ndr) con l’intendimento di provocare, appunto … un centinaio di vittime tra i Carabinieri lì in servizio”. Prima c’erano già state le bombe del 1993: via Fauro (4 maggio, Roma), via Georgofili (27 maggio, Firenze), via Palestro (27 luglio, Milano), San Giovanni al Velabro e San Giorgio al Velabro (la notte tra il 27 e il 28 luglio, Roma). E ancora si piangeva per Capaci (23 maggio 1992) e via D’Amelio (19 luglio 1992)
Come sappiamo l’attentato con la Lancia Thema bordeaux, imbottita di tritolo e tondini di ferro, fallì e probabilmente, come scrivono le toghe siciliane, in qualche modo la democrazia fu salva: il Paese sarebbe “caduto in ginocchio” sotto i colpi spietati di cosa nostra .”E ciò conferma ulteriormente quanto si è già concluso riguardo alla minaccia di ‘cosa nostra’ ed a quelle che furono definite ‘bombe del dialogo‘… perché è del tutto evidente che in quel frangente la strategia di ‘cosa nostra’ non era più quella della contrapposizione frontale che aveva condotto alle stragi di Capaci e di via D’Amelio, bensì quella sopravvenuta con la quale si intendeva trarre benefici dalle aperture al dialogo ed alla trattativa che erano giunte ai vertici di ‘cosa nostra’ attraverso l’iniziativa dei Carabinieri con Vito Ciancimino'”.
“Riina rozzo non poteva pensare a utilizzo della sigla”
C’è poi l’altro aspetto su cui non c’è prova, ma indizi e sospetti inquietanti. Sul “secondo profilo … quello del possibile concorso nei fatti delittuosi qui in esame da parte di esponenti dei cosidetti ‘servizi segreti deviati’, va detto che gli indizi, che pure sono ravvisabili, non appaiono idonei ad assurgere al rango di prova. V’è, innanzitutto, il fatto che con la sigla della Falange Armata sono stati minacciati e rivendicati in quegli anni innumerevoli attentati – ricordano i giudici – nei confronti di altrettanto innumerevoli esponenti delle Istituzioni ed è certo che l’utilizzo di tale sigla non è riconducibile (solo) ad un preciso gruppo di soggetti (si è visto sopra il sostanziale fallimento del processo penale nel quale si era ritenuto di avere individuato uno dei responsabili)”, l’uomo che fu individuato a Taormina e processato è stato assolto. “Certo, è forte il sospetto che il fenomeno della Falange Annata abbia potuto avere origine nell’ambito di servizi di sicurezza dello Stato (in tal senso si sono espressi pressoché unanimemente tutti gli esponenti delle Istituzioni chiamati a testimoniare in questo processo…). Ed appare, nel contempo, veramente improbabile che un mafioso “rozzo” come Riina abbia potuto autonomamente pensare di utilizzare la sigla della Falange Armata per rivendicare gli attentati di ‘cosa nostra’. Chi allora aveva pensato a servirsi della sigla? “Ma all’interno di quest’ultima (cosa nostra, ndr), come emerso in questo ed in molteplici altri processi già definitivamente conclusi, v’erano sicuramente altri soggetti meno “rozzi” e adusi anche a rapporti con esponenti degli apparati di sicurezza che avrebbero potuto instillare o, quanto meno, in qualche modo provocare, quell’idea di rivendicare gli attentati con la sigla della Falange Armata. Si tratta, però, come si vede, di mere ipotesi che, per quanto altamente plausibili, non possono supportare, in termini di prova processuale, alcuna conclusione sull’effettivo concorso di esponenti degli apparati di sicurezza dello Stato nei fatti di minaccia che sono oggetto del presente processo”.
Le telefonate, le sedi del Sismi e i 15 agenti segreti addestrati all’uso delle armi e degli esplosivi
Tra gli esponenti delle istituzioni chiamati a testimoniare nel processo c’è l’ambasciatore Francesco Paolo Fulci, già diplomatico negli anni ’80 deportato al vertice del Cesis (Comitato esecutivo per i servizi di informazione e sicurezza) tra il 1991 e il 1993 dall’allora presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, anche se la nomina era di pertinenza del presidente del Consiglio, all’epoca Giulio Andreotti. Fulci, come ha raccontato ai giudici durante la sua testimonianza al processo, non avrebbe voluto accettare quell’incarico: “Ma non ci fu verso, fu proprio il Presidente Cossiga che fece appello, mi trattenne nel suo studio a lungo dicendomi: no, noi abbiamo bisogno di qualcuno che venga … Al di fuori di quel mondo. Io infatti ero il primo ambasciatore ad essere mai nominato Capo dei Servizi Segreti”. C’era bisogno di qualcuno fuori da quegli ambienti che probabilmente anche le più alte cariche ritenevano inquinati.
Catapultato nell’universi paralleli degli 007 è stato Fulci a parlare di quei quindici agenti segreti addestrati all’uso delle armi e degli esplosivi che sospettava potessero essere collegati con le bombe del 1993 e anche delle telefonate della Falange Armata che “partivano dalle sedi coperte del Sismi”. Fulci incaricò un analista del Sisde, Davide De Luca (deceduto, ndr) di lavorare sulle rivendicazioni. “E lui venne da me portando ad un certo punto … Ricordo ancora che entrò con l’aria un po’ preoccupata nel mio ufficio dicendomi: guardi, queste sono le mappe, questa è la mappa da dove provengono le telefonate, questa è la mappa delle sedi periferiche di allora, perché poi queste sedi cambiano, io francamente non so se erano le stesse, se sono gli stessi, eccetera… E addirittura aveva un lucido nelle mani, dice: ecco, guardi, le sovrappone, quasi combaciano, sono quasi … lo dissi… Da un lato da dove partivano le telefonate e dall’altro dove erano le sedi periferiche in Italia del Sisimi ….”. Ma perché pezzi del Sismi avrebbero dovuto rivendicare le stragi di mafia? Fulci non lo dice, spiega però di “essersi convinto che tutta questa storia della Falange Armata faceva parte di quelle operazioni psicologiche previste dai manuali di Stay Behind, facevano esercitazioni, creare il panico in mezzo alla gente e creare le condizioni per destabilizzare il Paese”.
L’ambasciatore, prestato a forza all’intelligence, scopre anche che dentro la VII divisione del Sismi esiste un servizio speciale coperto composto da 15 agenti segreti super addestrati. “…erano gli unici nei Servizi che fossero stati addestrati per manovrare esplosivi, erano gli unici, i servizi segreti servono solo per raccogliere informazioni, non per fare attività … sono persone che sono pronte se c’è qualsiasi emergenza a reagire con la forza insomma”. La cellula si chiamava Ossi.
Nei due anni al vertice del Cesis, Fulci diventa anche bersaglio di minacce di ogni genere, scopre addirittura di essere spiato nella sua stessa abitazione: chiede e ottiene, quindi di avere tutti i nomi che fanno parte di quel reparto speciale, scopre che la bonifica che aveva ordinato nella casa (che gli è stata messa a disposizione dallao Stato e che è piena di microspie) non è stata eseguita o meglio tutte le attrezzature presenti hanno continuato a funzionare e registrare. Quei nomi “li copiai su un foglietto che nascosi poi nella mia libreria, dicendo a mia moglie che se fosse successo qualcosa era lì che bisognava cercare: dopo aver lasciato l’incarico ed essere andato a New York alle Nazioni Unite provai a dimenticare quella brutta esperienza”.
L’ultima minaccia a Riina: “Chiudi la bocca”
A bombe esplose con la vittima più giovane di soli 50 giorni (via Georgofili, ndr) e con l’eco mediatica arrivata negli Usa sulle pagine del New York Times, Fulci recupera l’appunto, torna in Italia e lo consegna al generale dei carabinieri Luigi Federici spiegandogli che si è deciso a fare questo per essere certi che i servizi non c’entrano niente con gli attentati e quelli sono “i nomi delle persone che sanno maneggiare esplosivi all’interno dei servizi”. Ai quindici nomi, però, Fulci ne aggiunge un altro: quello del colonnello Walter Masina, che però non fa parte della VII divisione e degli Ossi. “Non avrei dovuto farlo ma volevo fargliela pagare, dato che Masina era quello che spiava la mia abitazione”. La denuncia di Fulci cade nel vuoto, anzi è lui a finire nel mirino perché sospettato di aver “montato un depistaggio con gli americani“. Intanto le stragi si fermano, la prima Repubblica è ormai franata sotto il peso dell’indagine di Mani pulite, i partiti vengono azzerrati dagli arresti e dalle rivelazioni del pool di Milano. Ed è così che sembra dissolversi anche l’oscura sigla. Un sparizione temporanea perché dal cono d’ombra la Falange rispunta non per rivendicare ma per minacciare. Nel dicembre del 2013 il boss dei boss in carcere milanese di Opera riceve una lettera a firma di Falange Armata: “Riina chiudi la bocca, ricordati che i tuoi familiari sono liberi, al resto ci pensiamo noi”. Sono i mesi in cui il boss corleonese parla tanto, probabilemente perfettamente consapevole di essere ascoltato e intercettato, durante l’ora d’aria. Ma di quelle intercettazioni, di quesi discorsi Riina si saprà solo molti mesi dopo. Ma Falange Armata lo sapeva già