L'ad Fiorentino ha rivelato che a novembre 2017 ci fu la corsa agli sportelli per ritirare i depositi da parte dei clienti, turbati dall'incertezza sul consorzio di garanzia che doveva assistere l'ultimo aumento di capitale. C’è da chiedersi cosa potrà accadere nei prossimi due mesi, tra tempesta giudiziaria e guerra quotidiana tra il primo socio Malacalza e il numero uno
Una pericolosa crisi di liquidità la banca l’ha già vissuta. Lo ha rivelato lo scorso 31 gennaio l’amministratore delegato di Carige, Paolo Fiorentino, ricordando che il 16 e 17 novembre del 2017 ci fu la corsa agli sportelli per ritirare i depositi da parte della clientela, turbata dalle incertezze sul consorzio di garanzia che doveva accompagnare la banca ligure all’appuntamento dell’ultimo aumento di capitale da 500 milioni (il terzo dal 2014) del dicembre scorso. Turbolenza poi rientrata. Ma se è bastato quel momento di incertezza (l’ennesimo nella travagliata storia della banca genovese) per innescare un rapido bank run, c’è da chiedersi cosa potrà accadere nelle prossime settimane e in generale nei due torridi mesi estivi che attendono l’istituto prima della nuova assemblea che dovrebbe ridisegnare l’assetto. Un’incognita pesantissima, due mesi con la banca allo sbando in una sorta di vuoto pneumatico. In cui tra tempesta giudiziaria e guerra quotidiana tra il primo socio con il 20,6% del capitale, l’ex vice-presidente dimissionario Vittorio Malacalza, e il suo ad Fiorentino, Carige è di fatto lasciata a se stessa.
Un vuoto di potere scosso da veleni quotidiani, con la Procura e Consob in campo, i consiglieri che fuggono e i vertici che si affrontano in una sorta di notte dei lunghi coltelli. La Bce è entrata pesantemente in campo e ovviamente in questo contesto di anarchia al potere ha sparato ad alzo zero. Ha confermato che i requisiti di capitale, come denunciato dal consigliere dimissionario Stefano Lunardi non sono stati rispettati a inizio anno con uno scarto minimo ma pur sempre sotto la soglia richiesta; chiede un nuovo piano, una rapida cessione di quanto atteso e spinge a questo punto per una governance stabile e credibile e per una rapida aggregazione. Come dar torto a Francoforte, sempre più preoccupata dalla drammatica telenovela che va in scena da tempo in quel di Carige? Il rischio è evidente. Carige è l’ultimo vero malato cronico che rischia il crac tra le grandi banche italiane. Dopo gli inabissamenti delle due banche venete e la nazionalizzazione forzata di Mps, Carige resta il grande sorvegliato speciale. E basta un niente a far precipitare in modo irreversibile la situazione. Due mesi, quelli torridi estivi, in cui la banca si troverà senza guida credibile. Come è avvenuto per le banche venete il rischio è di innestare un pericolosissimo corto circuito. Fiaccati da tre aumenti di capitale, dal 2014 in poi, per la bellezza di 2 miliardi già bruciati per il 75%, cosa può passare per la testa dei clienti-soci della banca di fronte al tristissimo e indecoroso circo Barnum che scuote i vertici? La tentazione non può che essere quella di fuggire. I tecnici lo chiamano il bank run, la fuga, la corsa allo sportello a chiudere conti e vendere obbligazioni della banca. Un copione già visto nel caso delle due venete dove la crisi si manifestò nella sua interezza con l’emorragia dai conti correnti.
CONTI E DEPOSITI GiA IN FUGA PER 2,5 MILIARDI – E in fondo Carige il prologo lo sta già vivendo da più di un anno. La raccolta diretta della banca è in flessione pesante. Dal 2016 al 2017 il calo è stato di oltre 2,5 miliardi da 19,4 miliardi di fine 2016 a 16,8 miliardi di fine 2017. Un secco 13% in meno nella provvista di fabbisogno della banca. Sono usciti 700 milioni tra conti correnti e depositi e sono andate a scadenza obbligazioni non rinnovate. E il confronto con l’ultima trimestrale dice che la raccolta di privati e imprese è crollata nel giro di 12 mesi di 1,7 miliardi con un -11%. Chi può, e sfibrato dalla crisi di fiducia (ormai persa), abbandona la nave e cambia banca. E il segno più evidente del timore per il futuro è nella fuga della raccolta a medio e lungo termine scesa a marzo del 2018 di 1,3 miliardi. Questi numeri dicono di una lenta emorragia cominciata da più di un anno e che fotografa la situazione mesi prima dello scoppio della guerra aperta. Si vedrà se i dati dei sei mesi che verranno divulgati il prossimo 3 agosto confermeranno la tendenza alla fuga. E in ogni caso la fotografia sarà datata. Se ci sarà accelerazione nell’esodo non si vedrà dai dati di giugno. La traversata nel deserto è proprio quella che attende i clienti nei prossimi due mesi di vuoto di potere. Che la banca sia in pessime condizioni non è un mistero per nessuno.
BANCA A PEZZI CON RICAVI SCESI DEL 30% E COSTI ALL’87% DEI RICAVI – E l’agonia va in scena ormai da troppo tempo per pensare a un rapido capovolgimento di fronte. Negli ultimi 5 anni Carige ha prodotto perdite per 3 miliardi, sopportato tre aumenti di capitale per oltre 2 miliardi. Tutto solo per tenere il patrimonio eroso dalle perdite in linea con la regolazione. Obiettivo, come rilevato dalla Bce, non ancora raggiunto. Ma sono i conti della banca che affondano senza soste. Il suo attivo è di poco più di 20 miliardi, la metà di solo 5 anni fa. I ricavi sono crollati di oltre il 30% in soli tre anni con i costi operativi che si mangiano l’87% degli stessi ricavi. I prestiti sono collassati di un terzo. In queste condizioni la banca non può produrre reddito dalla gestone ordinaria. Figurarsi poi con le rettifiche dovute al virus delle sofferenze. E proprio il capitolo dei crediti malati è il colpo di grazia al già gracile bilancio che perde ricavi a bocca di barile.
CREDITI MALATI AL 26% DEGLI IMPIEGHI, UN RECORD IN ITALIA – Carige è tra le grandi banche italiane quella con il peso più evidente di sofferenze e incagli. I crediti malati lordi valevano a marzo di quest’anno 4,73 miliardi su 17,7 di impieghi, ben il 26% del portafoglio e oltre due volte il capitale della banca. I prestiti marci dopo le rettifiche sono al 15% degli impieghi un valore molto più alto della media del sistema. Certo la banca ha in procinto di pulire e molto la zavorra di sofferenze e incagli e Fiorentino su questo è impegnato. Resta il tema però dei cosiddetti ex incagli, le inadempienze probabili che devono essere dismesse e che sono tre volte più elevate della media delle altre banche. E qui l’incognita sarà il prezzo di cessione, dato che le coperture degli ex incagli sono al 37%. Se il prezzo di acquisto non sarà adeguato si finirà per produrre nuove perdite dall’operazione e quindi di intaccare di nuovo i requisiti di capitale già ritenuti non soddisfacenti dalla Bce. La banca ha visto per la prima volta un piccolo utile nella trimestrale di marzo. Solo 6 milioni e le stime di Mediobanca indicano in 25 milioni il possibile utile netto del secondo trimestre. Poca cosa, un niente per la banca con più crediti malati del sistema e con ricavi scesi del 30% in pochi anni. E ora, se anche i clienti nell’estate più torrida della lunga storia di una delle banche più antiche del paese dovessero decidere di abbandonare la nave in tempesta, sarebbero guai seri.
IL CONTO AI LAVORATORI: -30% IN 5 ANNI – Ieri la Cgil è scesa in campo stigmatizzando con forza la grottesca situazione: “Basta giochi al massacro ai vertici”, hanno detto, ricordando che il prezzo l’hanno pagato soprattutto i dipendenti che hanno visto la forza lavoro scendere del 30% in 5 anni. Di loro, sui giornali che in questi giorni hanno raccontato la guerra sulla tolda di comando, nessuna traccia.