Giorgio Fornoni è un reporter indipendente da oltre 40 anni. Da sempre attento all’umanità violata delle vittime delle guerre, ha firmato inchieste e reportage dalle zone più sperdute e pericolose del mondo. Dal 2000 collabora con Report (nel 1999 è stata Milena Gabanelli a renderlo noto al grande pubblico con una puntata del suo programma interamente dedicata a lui), nel 2010 ha pubblicato per Chiarelettere il Dvd+libro “Ai confini del mondo”, nel corso della sua carriera ha intervistato figure di primo piano della cultura e della religione: tra queste, Rigoberta Menchú, Shirin Ebadi, il Dalai Lama, Anna Politkovskaja e tanti altri. Ilfattoquotidiano.it oggi ospita il racconto inedito del suo viaggio in Siria.
Volevo capire l’assurdità della violenza e della guerra. Volevo capire come una terra considerata santa da 14 confessioni religiose, che lì hanno convissuto insieme per millenni, possa essere diventata oggi il simbolo della divisione e della tragedia. Dopo 7 anni di distruzioni e di bombardamenti, di verità e di menzogne, la Siria sta oggi lentamente uscendo dall’incubo. Le forze governative hanno ripreso il controllo sull’80 per cento del territorio e le milizie integraliste dell’Isis che minacciavano di disgregare il paese dall’interno sono state ricacciate verso le frontiere meridionali. Lo scenario che si sta oggi configurando, nel quadro incoerente e pressoché incomprensibile che i media hanno dipinto in questi anni, è quello di una vittoria del presidente Bashar al Assad, nonostante l’ostilità dell’America, di Israele e di gran parte del mondo occidentale. A decidere l’esito della guerra è stato invece l’intervento della Russia, schierata a fianco del governo siriano, così come l’Iran e gli hezbollah del Libano. Sono stati i suoi interventi militari mirati sulle postazioni dell’Isis ad invertire un esito che sembrava annunciato. E che avrebbe visto il paradosso di un trionfo delle forze integraliste favorite da chi si è sempre dichiarato il loro più acerrimo nemico.
Eccomi dunque al confine tra Siria e Libano, sull’autostrada per Damasco che va riprendendo il suo ruolo di arteria vitale per il paese. Accompagno due frati francescani che rientrano nel convento di Bad Touma, all’interno della città vecchia. Le distruzioni non si vedono ancora. Attraverserò poi interi quartieri devastati, ma sono alla periferia della capitale, nelle zone di Douma e Goutha. Sono piuttosto i check-point, numerosissimi e presidiati dai militari siriani, a far capire che la tensione resta alta. Voglio capire qualcosa di più di questa guerra incomprensibile e assurda dalla voce di chi l’ha vissuta in prima persona. In particolare dai religiosi cristiani, che qui erano e sono una comunità rispettata e importante. Nel santuario di San Paolo, là dove l’apostolo ebbe la sua conversione, raccolgo la prima sconcertante testimonianza. “Ci sono tante cose da chiarire su questa guerra”, mi dice fra Raimondo, che ha vissuto fin dall’inizio il dramma di questo paese. “La prima è che non è stata una guerra civile, né di religione. Le varie comunità vivono ancora oggi una accanto all’altra, diffuse ovunque. Non ci sono quartieri o ghetti. I cristiani hanno sofferto come tutti gli altri e il nostro compito qui, la nostra missione è quella di testimoniare l’amore, non l’odio. I musulmani siriani sono gente buona, i loro valori sono molto simili ai nostri. La lezione di questa guerra è che la pace è un dono di Dio, ma va alimentata e cresciuta nei nostri cuori, giorno per giorno. È quello che tutti insieme oggi vogliamo ricominciare a fare”.
Le cifre della guerra sono impressionanti. Si parla di mezzo milione di morti, 2 milioni e mezzo di feriti, di 8 milioni di sfollati interni e di oltre 5 milioni di profughi all’estero, di 13 milioni di persone che hanno ancora bisogno di assistenza umanitaria. I dispersi sono oltre 50mila. La guerra ha di fatto costretto oltre metà dell’intera popolazione siriana a lasciare la propria casa. Il 66 per cento dei bambini, secondo un rapporto delle Nazioni Unite, ha perso un familiare, la propria casa o è rimasto ferito. “Ho pensato spesso in questi anni alle lamentazioni bibliche”, mi confessa il cardinale Zenari, da me incontrato nella Nunziatura di Damasco. “Nel Vangelo leggiamo della strage degli innocenti. Ma qui abbiamo vissuto le stesse cose, le abbiamo viste con i nostri occhi, abbiamo visto morire i nostri bambini”. Il cardinale Zenari è il capo della chiesa latina in Siria, ha visto ridursi ad un terzo, a 800mila fedeli, il numero della popolazione cristiana in quella che viene ancora definita storicamente “Terra santa”.
“Questa è una guerra per procura”, afferma senza esitazioni il cardinale Zenari. “È partita come uno scontro armato regionale per diventare poi conflitto internazionale, con 10 eserciti direttamente coinvolti. Per alcuni mesi ci sono state solo dimostrazioni pubbliche dopo il venerdì della preghiera. Ma poi è subentrato qualcos’altro. Sono entrate nel paese le milizie armate, sono intervenuti interessi politici esterni. La guerra finirà soltanto quando anche all’interno delle Nazioni Unite si sentiranno parole di riconciliazione non di guerra e di odio. Le devastazioni della guerra sono state già immense. Ma ancora più grandi sono le ferite degli animi”. Mi rendo conto di cosa è successo in questi anni, allontanandomi dal centro di Damasco, verso le periferie e le altre città dove si è combattuto come su una prima linea. Nomi ripetuti tante volte nei telegiornali, come Goutha, Douma, Homs, Aleppo. Ovunque macerie e palazzi sventrati dai missili e dalle bombe. In certe zone ancora si fa fatica o è addirittura impossibile passare con le automobili. I negozi sono chiusi o saccheggiati, la poca gente che si vede in giro vive accampata tra le rovine. C’è ancora molta diffidenza, l’odio e le vendette non saranno facili da placare.
Ho vissuto tante altre guerre, ho visto tante altre regioni devastate dalla violenza e dall’intolleranza. Ma qui c’è qualcosa di diverso. C’è la sensazione di qualcosa di non detto, di non raccontato. Il sospetto che la copertura mediatica sia stata parziale, se non falsa addirittura, che la verità sia stata una delle prime vittime di questa guerra. La Siria come simbolo dell’ambiguità dell’informazione, terreno di scontro finale tra i mille interessi che avvelenano il Medio Oriente. Il governo di Assad è stato dipinto come quello di uno spietato dittatore, l’opposizione a lui come un movimento di liberazione. La denuncia di quelle che poi si sono rivelate inesistenti armi chimiche ha portato ad un passo dall’ennesima e catastrofica “guerra giusta”. Salvo poi ammettere che la vittoria del governo in carica ha segnato la prima e più decisiva sconfitta delle velleità integraliste del Califfato. “Sono in tanti che cominciano a capirlo”, mi dice padre Bajar, il guardiano del convento di Bad Touma. “Chiunque viene qui oggi, si rende conto in prima persona dei tanti pregiudizi e delle falsità che ha conosciuto nel proprio paese. Il nostro compito è anche quello di testimoniare ciò che è veramente successo. Per aiutare il popolo siriano a rialzarsi anche da questa prova”.
Padre Ibrahim è il parroco di Aleppo, diventato celebre per il suo coraggio sotto le bombe e la sua dedizione verso i propri concittadini. Nella seconda città della Siria e la sua capitale economica, la più segnata dal conflitto, vive oggi un terzo degli oltre 4 milioni di abitanti che erano. Padre Ibrahim è venuto tante volte in Italia in questi ultimi anni. Voleva sensibilizzare sulla situazione disperata che stava vivendo, quando nella città diventata un campo di battaglia restavano soltanto i più poveri e sfortunati, quelli non in grado di rifugiarsi altrove. E denuncia apertamente la gestione degli aiuti internazionali. “La Siria vive ancora sotto embargo, un embargo assurdo in questa guerra assurda”, mi dice. “Ho avuto spesso, e ho ancora, la sensazione che gli aiuti non siano distribuiti equamente. Si preferisce destinarli ai profughi fuori dalla Siria, mentre ad Aleppo e all’interno della Siria controllata dal governo legittimo ne arrivano pochissimi. In questi anni ho letto che sono entrati in Siria 700 miliardi di dollari in armi e armamenti alle varie fazioni. E io faccio fatica a portare le poche migliaia di euro raccolte durante un viaggio tra le parrocchie e le diocesi in Italia”.
L’Ospedale degli Italiani, nel centro di Damasco, è diventato, senza tanto clamore, un punto di riferimento durante gli anni terribili della guerra, quando anche sulla capitale piovevano le bombe di mortaio degli antigovernativi. Suor Maria Luisa, pugliese, vive qui dal 1985 e rimpiange gli anni “della serenità e della pace”, prima che la situazione degenerasse fino a questo punto. Le parole con le quali parla di Assad e della sua famiglia suonano sorprendenti per chi legge i quotidiani o ascolta i telegiornali dei grandi network internazionali, soprattutto in Occidente. “Assad è un grande presidente”, afferma senza esitazioni. “Ama il suo popolo e il suo popolo lo ama. Lo hanno dipinto come un dittatore, ma queste sono falsità e menzogne. Lui ama la Siria, non l’ha mai tradita, ma anzi l’ha difesa dai suoi nemici. Si sente al servizio del popolo, siriano tra i siriani”.
Ancora più decisa è suor Yola Girges, siriana, che ho incontrato nel santuario di San Paolo. “La Siria è un esempio di tolleranza religiosa, un mosaico di religioni e di culture”, afferma. “Non sono riusciti a distruggerlo nemmeno con la guerra e questo si deve molto proprio ad Assad. Ha sfidato il mondo e noi siriani ne siamo tutti orgogliosi. Aveva promesso di liberare il paese dai terroristi e lo sta facendo. L’Occidente deve sapere che questa è stata una guerra ingiusta, che i media hanno dato un’immagine distorta e falsificata della realtà. Non sono mai state usate armi chimiche, non ci sono stati massacri di civili da parte dei governativi. Le armi che hanno devastato la Siria venivano dall’America, da Israele, dal Qatar, dall’Arabia Saudita. E le notizie erano falsificate ad arte dai Caschi Bianchi, gli stessi che denunciavano l’uso delle armi chimiche da parte di Assad, e da altre sedicenti associazioni umanitarie straniere. Ho conosciuto io stesso un padre che ha ammesso di avere usato il proprio bambino come vittima, al servizio della propaganda”. Suor Yola mi guarda sicura di sè, poi sorride. “So che può sembrarvi incredibile, sarà difficile che tu lo possa scrivere”, aggiunge. “Ma per noi, il presidente Assad, il popolo siriano e l’esercito governativo sono la Santissima Trinità della Siria. Senza di loro, il cristianesimo sarebbe forse scomparso del tutto dalla nostra terra”.
Lascio la Siria con tante altre domande ancora inespresse. Ho scelto di ascoltare la voce dei cristiani perché convinto che siano in buona fede e testimoni credibili di ciò che è successo. Ho tra le mani l’ultimo rapporto dell’Opac, l’organizzazione per la proibizione delle armi chimiche. Dopo un esame sul posto, si smentisce ufficialmente che sia stato usato gas nervino a Douma, così come a Hamadaniya e Karm al-Tarrab, tra il 2016 e il 2018. Le solite agenzie internazionali si limitano a poche righe, mentre due anni fa si rischiava un intervento diretto degli Stati Uniti per le stesse accuse. Lo stesso gioco usato in Iraq, in Afghanistan, in Libia, penso tra me. Penso anche al popolo curdo, oggi arruolato come fronte anti-Assad dalle potenze occidentali. Ho conosciuto il loro dramma, la loro aspirazione ad essere nazione indipendente. Ne avevo fatto un reportage, descrivendolo come un “popolo senza patria”. Oggi 30 milioni di curdi si trovano divisi tra Turchia, Iraq, Iran e Siria, sono diventate le pedine di un gioco a scacchi molto più ampio e il loro sogno si allontana sempre di più, travolto dai vari interessi contrapposti.
Esco dalla Siria dalla frontiera con il Libano, altro paese sfortunato e ostaggio degli interessi stranieri. Mi accompagnano le ultime rovine lungo la strada, dopo aver respirato la polvere delle macerie di Aleppo, aver visto chiese e moschee, cupole e minareti sbrindellati dai missili. I check-point sono ovunque, scandiscono la realtà di una guerra che in realtà non è ancora finita. “Poiché è grande come il mare la tua rovina, chi potrà guarirti? O voi tutti, che passate per la via, guardate se c’è un dolore simile al mio dolore”. Sono parole che si leggono nella Bibbia e nel Vangelo, me le ha ricordate il cardinale Zenari. Non ce ne sono altre per descrivere ciò che ho visto in questi pochi giorni trascorsi con i francescani di Siria e della Custodia di Terrasanta. Sono immagini che non potrò mai dimenticare e che dovrebbero scuotere anche la coscienza del mondo.
di Giorgio Fornoni