Una frase del primo discorso del presidente del Consiglio Giuseppe Conte davanti al Senato per chiedere la fiducia lasciò sbigottiti per il solo fatto di essere stata pronunciata: “Non siamo e non saremo razzisti”, precisò a un certo punto il capo del governo. Sentire risuonare in Parlamento una “promessa” del genere nel 2018, a settant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione dell’articolo 3 e a ottanta dall’abominio delle leggi razziali, appariva un’incomprensibile stonatura per quello che di sé diceva e continua a dire di essere il governo “del cambiamento”.

Davvero, in un Paese che ha tanti problemi ma è – per la fortuna di tutti – democratico e liberale, c’è bisogno di precisare che un governo non discriminerà nessuno dei suoi cittadini? Davvero c’è bisogno di farlo dopo aver giurato sull’articolo 3? Davvero c’è bisogno di arretrare la discussione a un punto tale?, ci si chiedeva. A un punto, cioè, da ricominciare daccapo e rendere anche solo accettabile dover precisare di non essere razzista, dando quindi per implicito che potrebbe esistere anche un’alternativa, come se si dovesse aprire un dibattito nel Parlamento inglese del ’15, ma inteso dell’Ottocento?

Conte voleva dire forse un’altra cosa, la frase era inserita in un ragionamento più ampio, potrebbe dire qualche avvocato dell’Avvocato del popolo. Sì, Conte intendeva dire che il governo vuole solo far rispettare le leggi sull’immigrazione, anche questo un concetto ridondante visto che un governo fa rispettare le leggi per definizione (il problema semmai è il come). “Difendiamo e difenderemo gli immigrati che arrivano regolarmente sul nostro territorio, lavorano e si inseriscono nelle nostre comunità rispettandone le leggi e dando un contributo decisivo allo sviluppo”, fu la conclusione del ragionamento.

In quei giorni c’erano i motivi per cui il presidente del Consiglio si ritrovò a precisare ciò che dovrebbe essere la regola numero uno, la regola secondo la quale per le istituzioni tutti i cittadini sono uguali. Il motivo era che il governo nasceva con il sospetto di una parte dell’opinione pubblica nei confronti di una parte della maggioranza, il cui successo sempre più fiammeggiante è dovuto per la gran parte sull’indicazione del “diverso” come spiegazione accettabile dell’infelicità e dell’insicurezza dei cittadini presunti autoctoni. Un sospetto fondato sul pregiudizio, perché la comunicazione non era già quella di un partito di governo ma ancora quella di una campagna elettorale estenuante.

Ora, però, sì: dal pregiudizio si passa al giudizio, di due mesi di governo. E, come un’epifania, si scopre che quella rassicurazione pronunciata al Senato dal presidente del Consiglio, che sembrava così stupefacente, risuona ora come un presagio di chi aveva già capito che ce ne sarebbe stato bisogno, di frasi così. Ma fino a questo momento accanto alla retorica del ministro dell’Interno – la cui regola comunicativa esclusiva è parlare di reati compiuti da immigrati e mai di reati in cui gli immigrati sono la parte offesa – non esiste una posizione dell’altra parte del governo. Se c’è, non si sente. Un silenzio che potrebbe essere rotto, aprendo di nuovo la Costituzione, che è rimasta la stessa del tetto della Camera. Il ministro dell’Interno fa infatti parte di un governo di cui Giuseppe Conte, per funzione, è il responsabile politico.

Il presidente del Consiglio può ripetere quella promessa fatta al Senato, dismettere l’abito dell’ambasciatore che stringe mani (che pure serve), non limitarsi per una volta all’esecuzione del contratto di governo, perché esistono regole che stanno un po’ più in alto. Può invitare a Palazzo Chigi l’operaio di Vicenza a cui hanno sparato mentre installava le luminarie, la mamma della bambina che rischia la paralisi e il padre di Daisy Osakue che oggi ha detto che da adesso in poi farà attenzione che i suoi figli di 22, 14 e 8 anni non tornino a casa dopo le 20 per non rischiare di essere aggrediti avendo la pelle nera. Caro Iredia, cara Daisy, visto che non ve lo dice il mio ministro dell’Interno, ve lo dico io. Vi dico che non lo so, non lo so davvero, se tutti questi episodi c’entrano col razzismo, ma anche che non me ne frega nulla. Vi dico lo stesso che il razzismo fa schifo e che si comincia a combattere quando si smette di negarlo: si è “non razzisti”, come ho promesso quel giorno al Senato, ripetendo il valore dell’antirazzismo. E vi dico che farò di tutto per assicurare a tutti voi il diritto di uscire per strada quando volete, proprio come a tutti gli altri, nati qui o altrove, perché è questo che fa un governo “del popolo”. Di tutto il popolo.

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